Blog / Sandokan | 27 Febbraio 2016

Le Lettere di Sandokan – L’ inferno di Dio

“Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini”.

E’ una frase che Nietzsche attribuisce al demonio. Utilizzo questa frase per provare a capire perché il demonio, una creatura più intelligente di me, abbia potuto condannarsi al suo inferno. Non vi sembra una strana scelta? Una scelta stupida? Chi di noi sceglierebbe l’inferno? Nessuno, ne sono certo. Tutti in Cielo vogliamo andare. Chi di noi se potesse scegliere di ricevere un calcio o una carezza, non sceglierebbe una carezza?

Il demonio però non l’ha vista così, lui si è sentito a un certo punto di dover scegliere tra due inferni: l’inferno di Dio e l’inferno delle creature. E ha preferito quest’ultimo, perché il primo deve avergli fatto più paura. Fa paura vivere eternamente dentro un amore non ricambiato.

L’inferno di Dio, come lo chiama Nietzsche, è un inferno vero. Un “luogo” in cui si muore, per sempre. Sì, noi sappiamo – perché lo abbiamo letto, perché lo abbiamo ascoltato, perché forse lo abbiamo in qualche modo sperimentato sulla nostra pelle – che la morte non è la fine di Dio, né la fine degli uomini, né la fine del mondo. E però Dio muore “eternamente” per “eternamente” risorgere, finché ci sarà il tempo. Una vita complessa. Ma perché? E per chi, poi?

“A me non piacciono i misericordiosi, che sono beati della loro compassione: mancano troppo di vergogna”. E’ sempre Nietzsche che parla. Parla del dolore che prova nel vedere “i compassionevoli” (così li chiama) che non hanno vergogna a continuare a sedere accanto a chi, continuamente, li tortura, li umilia, li offende. Accanto a chi ha inferto loro una ferita “mortale”, che nessuna giustizia potrà mai riparare. Perché un conto è perdonare e lasciare, un altro è perdonare e restare, e sorridere, senza dimenticare ciò che non si può dimenticare.

La misericordia non è fine a se stessa. Non vuole cancellare il passato, vuole sperare nel futuro. Sempre. Anche davanti a situazioni senza speranza. La misericordia vive di attese.

“Tu ama, ma non avere aspettative, se non vuoi soffrire”. Ogni tanto qualcuno me lo ripete, quando mi vede piangere senza lacrime, perché io piango così. Piango anche ridendo, a volte, per non farmi scoprire da coloro ai quali in fondo non importa molto che io pianga o rida. Che effetto vi fa una frase del genere? Ha torto forse chi continua a ripetervela? Quante volte le attese deluse vi hanno segnato nella carne? E allora ecco il consiglio, che sembra risolvere tutto: non avere aspettative!

Ma come si può perdonare, senza avere aspettative?

All’apparenza sembra più edificante questo modo di amare, senza l’inferno di Dio, senza attendersi nulla in cambio. Ma Dio ama così? A me sembra che lui si aspetti di essere ricambiato nel suo amore. Se lo aspetta senza pretenderlo. E non si aspetta un amore qualsiasi, si aspetta un amore come il suo.

Vorrei che tu lasciassi tutto per me: questo si aspetta Dio da me. E, vi confesso, me lo aspetto anch’io da tutti coloro a cui dico “ti amo”. Mi aspetto che mi mettano in mano la loro vita, con fiducia. Capite che sofferenza? Non è ragionevole che qualcuno lo faccia e, se non lo pretende Dio, non posso certo pretenderlo io.

Però me lo aspetto lo stesso. Mi aspetto, per esempio, di unirmi a una donna che non abbia in testa una sua idea di felicità, che io non sia ciò che a lei manca per completare il suo quadro.

Vorrei una donna a cui non mancasse nulla.

Vorrei che si fidasse di dove le nostre vite ci condurranno, si affidasse a me ma non perché non ha alternative: che lo facesse per scelta e non per bisogno.

Vorrei qualcuno che lasciasse davvero “casa sua” per me, ma non perché sa già che posso offrirle una vita migliore secondo la sua contabilità. Non mi piace chi fa troppi conti: io voglio tutto e il “tutto” è inutile contarlo. Non volgo che scelga “una vita”, voglio che scelga me senza sapere quale vita farà, quale vita faremo.

Vorrei che si fidasse di me e della sua capacità di riscaldarmi il cuore e di tenermi compagnia.