Blog / Sandokan | 26 Novembre 2015

Le Lettere di Sandokan – Comunione

In questi giorni mi frullano in testa le parole finali della Preghiera Eucaristica, quelle che preparano al Rito della Comunione e che ricorderete anche voi: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo …”.
Volevo iniziare questo scritto confidandovi di non essere ancora certo che questo sia davvero ciò che desidero. Che vivere “per Cristo, con Cristo e in Cristo” sia il mio sogno per la vita. Se mi interessa davvero la Comunione oppure soltanto qualcuno che asciughi le lacrime dai miei occhi.
Salinger racconta – in Franny e Zooey – di una persona che decide, un bel giorno, di cercare di capire cosa vogliano dire, davvero, le parole di san Paolo che invitano a “pregare incessantemente”. Cioè, non è che non le capisca: è che non sa come si fa. E quindi se ne va in giro per il mondo a domandare.
Dopo vario peregrinare, finisce per giungere a una conclusione: l’unico modo è ripetere sempre “Gesù Cristo, mio Signore, abbi pietà di me”. Bisogna fare così: ripetere questa frase, senza stancarsi, in qualunque situazione. “Anche se stai vuotando la cassetta delle elemosine, devi dire la preghiera mentre rubi”.
Perché – è questa la speranza – col tempo, qualcosa succederà.
Penso a come è cominciato tutto questo, per me. E penso anche ad altri che conosco. Magari c’è chi ha iniziato la sua carriera di cristiano come “difensore della fede”: perché rimanga il crocifisso nelle aule, perché i cattolici abbiano una visibilità pubblica, perché sia mantenuta l’ora di religione nella Scuola, perché a nessuno venga in mente di cantare Imagine per le strade di Parigi, dopo ore di terrore. C’è chi invece è stato spinto dal bisogno: da una malattia che non da tregua né speranze, da necessità economiche, da una vita senza amore, dal desiderio di rendersi utile in qualche modo.
Ogni inizio va bene, non è l’inizio il problema.
Ma poi può accedere, a tutti, che il desiderio di comunione con qualcuno (col figlio del vicino, col prete della parrocchia, con la fioraia del negozio all’angolo … o con un po’ di righe del Vangelo) nel tempo si appanni, travolto dagli ardori delle battaglie contro il peccato e il male nel mondo.
E uno finisce per diventare un cristiano “professionista”, uno che sa come si fa, uno che sa come ciascuno deve vivere. Uno che parla sempre di deserti morali, o di argomenti profondi. Non so se riesco a spiegarmi, è una cosa che temo per me. A volte mi domando: se non ci fossero i peccatori, se non ci fossero malattie, io chi sarei? Non vorrei riconoscermi ateo, in Cielo, alla fine del viaggio. In un luogo dove non ci sarà né lutto, né dolore, né pianto, io che ci starei a fare?
Il Cielo, per me, è il luogo in cui posso fare per chi amo tutto ciò che qui non posso fare, perché le mie possibilità (e le occasioni che la mia vita mi dà) sono sempre inferiori al mio desiderio.
E il Cielo comincia da qui, dall’avere vicino qualcuno da amare così, col dolore di non poterlo amare di più, di non poter scrivere con la propria vita la sua felicità, accontentandosi di cancellare la sua tristezza, per un po’.
Non so se avete mai provato, per qualcuno, per qualche persona che conoscete, il desiderio di servirlo in tutto. Un desiderio forte a tal punto da non sapere cosa fare, intendo dire qualcosa di più di ciò che già fate. Vorreste stargli al fianco sempre: se ha sete vorreste essere voi a dargli l’acqua, se ha bisogno di un’auto vorreste essere voi a fargliela trovare sotto casa, se ha bisogno di un bacio vorreste essere voi a darglielo. Ma non potete. E forse non è neanche giusto che lo facciate.
Ecco, se uno ha vissuto una o più situazioni del genere, forse può capire. Non sto parlando di desideri di bene per lei o per lui: di malattie o di peccati. E’ che vorresti che la persona che ami viva per te, con te e in te e anche tu per lui, o per lei. Ma non come un “posseduto”, senza farci caso.
Vi racconto di un bambino che conoscevo. A otto anni era un tipo curioso. Il padre era ferroviere ed era spesso fuori per lavoro, così lui lo vedeva poco. Si era rassegnato a queste circostanze e non si lamentava con nessuno. Però aveva sul comodino della sua camera l’orario dei treni. L’aveva letto così tante volte da averlo imparato a memoria. Se dovevo partire chiamavo lui, perché mi piaceva starlo a sentire, mi faceva ridere e commuovere. Tu gli dicevi stazione di partenza, stazione di arrivo e orario e lui ti diceva quali treni potevi prendere. Non sbagliava mai. Nessuno gli aveva detto di leggersi l’orario dei treni, ma a lui piaceva.
Ogni sua risposta mi portava suo padre. Il suo amore per lui, il fatto che vivesse sempre in lui e che lo tenesse sempre con lui, nel suo comodino, senza farlo pesare a nessuno.