Mauro Leonardi – Quattro lezioni sulle virtù. La fortezza
La Trasfigurazione. La bellezza fonte di forza
Il vangelo della seconda domenica di quaresima ci parla della Trasfigurazione. Il motivo, come spiega San Giovanni Paolo II, è che la bellezza della Trasfigurazione ad aver dato agli apostoli la forza per sopravvivere all’umiliante Passione di Cristo Trasfigurato.
Nel vangelo non si usa mai “andreia” che indica la forza dell’uomo, in particolare del maschio. Si usano due vocaboli che sono Ισχυρός (=iskuros) che significa forte, robusto, vigoroso e Δυνατός (=dunatos) è un aggettivo che significa forte, che può, capace. Da questo deriva Δύναμις (=dunamis) che significa forza, facoltà, potere, potenza. Questo secondo termine ha nel nuovo testamento un alto numero di ricorrenze, ma credo che esuli un po’ dall’idea di fortezza come virtù cardinale, perché ha spesso il significato di potere, potenza e di ciò che è possibile all’uomo, sia in senso negativo che positivo.
Parlare della virtù della fortezza suscita immediatamente nel nostro immaginario l’idea di qualcosa che resiste, che è invincibile, che rimane saldo e integro malgrado le tempeste, una fortezza – appunto – costruita sulla roccia. Forse c’entra l’immaginario militare che abita un po’ il mondo culturale e religioso di ciascuno di noi: la fortezza sembra essere la virtù degli eroi, di quelli che non hanno mai paura o che, pur avendola, la vincono. I forti sono i coraggiosi, quelli che ce la fanno sempre e comunque, quelli che anche se cadono si rialzano e che, siccome vogliono veramente le cose, le ottengono.
È proprio così? L’esercizio della virtù della fortezza deve portare proprio a questo? Se leggiamo il vangelo possiamo renderci conto che quelle sono nozioni per lo meno riduttive perché la fortezza, qualcosa che ha a che fare con la forza , è qualcosa che riguarda l’essere stesso di Dio. “A Lui la forza e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (Apocalisse). A Lui appartiene la potenza, la forza. Però, quando Lui esercita la forza, lo fa in un modo molto distante dalle immagini che abbiamo evocato sopra.
Cominciamo con le sorprese: l’unica persona che il vangelo chiama forte è Gesù, e a definirlo così è il cugino Giovanni Battista: Colui che viene dopo di me è più forte di me (Mt 3,11; Mc 3,7; Lc 3,16). Questo forte è “iskuros”. Vengono chiamati forti elementi della natura come il vento (cfr Mt. 14,30) o la carestia (cfr. Mc 15,14) ma addirittura si dice che la forza cui noi pensiamo quando entriamo in categorie agonistiche – quella di chi lotta contro un antagonista per contendergli qualcosa – è qualcosa di precario perché c’è sempre il rischio di trovare qualcuno più forte: “quando un uomo forte, ben armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino (Lc 11,21.22 e paralleli Mt 11,29, Mc 3,27). Dunque, l’unica persona che lo Spirito Santo – autore principale del vangelo – chiama forte è Gesù e a definirlo così, l’abbiamo già visto, è Giovanni Battista cioè proprio la persona che a prima vista più facilmente definiremmo forte in senso “eroico”: perché la forza del Battista è nei digiuni, nelle scomodità, nella solitudine, in quella condotta integra che sarebbe stata la causa remota della sua morte. Invece la forza di Gesù si dispiega in tutt’altro modo. A me sembra un passaggio di consegne tra l’essere forte dell’antico testamento (e anche dell’antichità) e la forza del vangelo. Mi fa venire in mente quel punto del primo libro dei Re in cui Elia che, secondo i canoni di forza che piacciono tanto a noi uomini ha appena preteso e ottenuto da Dio una dimostrazione di forza (al comando della sua preghiera ha fatto scendere fuoco dal cielo per distruggere i nemici o pioggia per dissetare – 1° Re cap. 18) e che quindi si aspetterebbe di “vedere Dio” nel vento impetuoso e gagliardo oppure nel terremoto o nel fuoco, invece lo trova nel “sussurro di una brezza leggera” (1° Re 19, 12). Di questo avviso era anche San Giovanni Paolo II che nella terza udienza del suo pontificato disse: «La virtù della fortezza procede di pari passo con la capacità di sacrificarsi. Questa virtù aveva già presso gli antichi un profilo ben definito. Con Cristo ha acquistato un profilo evangelico, cristiano. Il Vangelo è indirizzato agli uomini deboli, poveri, miti e umili, operatori di pace, misericordiosi e, nello stesso tempo, contiene in sé un costante richiamo alla fortezza. Ripete spesso: “non abbiate paura” (Mt 14,27). Insegna all’uomo che, per una giusta causa, per la verità, per la giustizia, bisogna saper “dare la vita” (Gv 15,13).» (San Giovanni Paolo II, udienza generale 15.11.1978). Quel grande Papa ci dice che se è pur vero che la fortezza accompagna l’uomo fin dai tempi antichi, è ancor più vero che in Cristo essa ha acquistato un profilo evangelico. Cioè saper dare la vita per una giusta causa, per la verità, per la giustizia, diviene saper dare la vita per amore. Per questo i vangeli dicono che l’unico forte è Gesù. Perché egli è capace di questo, e lo è perché la sua forza risiede nel rapporto unico che ha con il Padre, e da questa relazione, inseparabilmente, ne deriva quella forza che è lo Spirito Santo, chi dà vita (Inno Veni Creator).
Tutto ciò fa riflettere molto. Perché Gesù non si presenta innanzitutto dinanzi ai nostri occhi come un uomo forte, come un eroe. Egli anzi si definisce in un modo apparentemente incompatibile con la forza eroica del mito. Egli chiama se stesso mite e umile di cuore. Certo invita i suoi discepoli più di una volta a non aver paura ma è pur sempre lui a provare nel Getsemani angoscia e tristezza, a chiedere che passi da lui il calice della Passione (Cfr Mt 26,39). È proprio in quel momento estremo della sua vita quando noi comprendiamo che Egli attinge la forza e la decisione di consegnarsi nelle mani dei nemici dal Padre, perché è allora quando dalle sue labbra sgorga il modo più affettuoso di rivolgersi al Padre: “Abba, papà” (cfr Mc 14,36). Gesù attinge la sua forza è dalla sua relazione con il Padre. Sa che la volontà del Padre è una volontà di amore, ne è certo. E ad essa si abbandona. Ecco perché Gesù è più forte di Giovanni Battista. Ecco perché Paolo può arrivare a dire che nel martire – l’eroe cristiano per eccellenza – la forza sta paradossalmente nella debolezza. Ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini… Dio ha scelto… ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (1 Cor 1,25.27). Tutto proviene da Dio, ma Dio è Trino, cioè è relazione. Ne abbiamo una sbiadita conferma nella nostra esperienza umana quando la paura ci avvince. Allora non è lo sforzo titanico a liberarci dai lacci ma avere qualcuno vicino, accanto, che scioglie nodi. Qualcuno che ci sostiene, ci aiuta, ci incoraggia. Che a volte, persino, muove lui i primi passi verso noi. È la forza della relazione che ci rende capaci di fare ciò che altrimenti non saremmo in grado di fare.
È vero: possiamo anche pensare che Gesù si mostra forte quando placa il mare in tempesta (Mt 8, 23-26) o distrugge i banchi dei cambia monete al tempio (Mc 11,15-16), o quando riuscita la figlia di Giairo (Mt 9,18-26) o il figlioletto della vedova di Nain (Lc 7, 12-16) o Lazzaro (Gv 11,43) ma proprio questi ultimi miracoli ci conducono a quella che in Cristo è la verità che si impone su tutte. Cristo ha vinto la morte. La morte, l’esperienza che nessuno di noi può vincere, di fronte alla quale ognuno di noi sente tutta la propria fragilità, quella morte che noi possiamo rimandare, esorcizzare ma certo non possiamo evitare, quella morte nella vita di Cristo è la grande sconfitta. Passando dentro la morte Cristo risorge per l’amore del Padre nella forza dello Spirito.
La Chiesa non finirà mai di approfondire questo mistero ma paradossalmente proprio questo è il mistero che la Chiesa propone per primo alla nostra Fede, quella che la fonda. Lo Spirito vuole il nostro credere a Cristo Risorto che al di là della morte ci aspetta la verità della vita senza fine. E così, di fatto, la fortezza trova la sua ultima radica nella Risurrezione perché essa i fin dei conti ci dice che ogni istante della nostra vita va ricondotto a quella fede e a quella speranza in Lui. Ogni volta che l’amore ci fa percorrere o incontrare la via della Croce, la Resurrezione ci dice che possiamo essere forti, pur nella nostra fragilità, perché sappiamo che l’ultima parola della nostra vita non è né la malattia, né la morte, né la croce, ma che l’ultima parola della nostra esistenza è come la prima, ed è l’amore. Perché l’amore è dare la vita e il Verbo si è incarnato non per amore della Croce ma per dare la vita all’uomo, perché tale è la Volontà del Padre. E la Resurrezione è tale vita. Per questo Gesù dire ai suoi discepoli non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre che parla in voi (Mt 10,19-20). Non preoccupatevi di cosa dire, di cosa fare, di dove andare. Non preoccupatevi di nulla perché c’è lo Spirito dator vitae, datore della Vita. C’è la Resurrezione. Per questo il Cantico dei Cantici può dire forte come la morte è l’amore… Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo (Ct 8,6.7). Questa è una citazione molto nota, ma forse non tutti sanno che il Cantico dei Cantici è il libro che il pio israelita leggeva proprio durante la festa di Pesach, cioè di Pasqua. L’israelita contemplava l’amore di Dio per il suo popolo, amore che si era mostrato forte come la morte perché aveva risparmiato i propri figli dall’angelo sterminatore e li aveva condotti illesi attraverso il Mar Rosso. In Cristo questo amore non solo si mostra forte come la morte, ma più forte della morte perché Cristo risorge dai morti. Mi vengono in mente le parole di un grande Padre della Chiesa: «Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde» (S. Leone magno, Discorsi 2 sull’Ascensione, 1,4 PL 54, 397-339 in Lit. Hor. Venerdì VI set. di Pasqua).
I martiri, quelli che fin dagli inizi la Chiesa ci ha additati come “i forti” sono lì a raccontarci questo: a dirci che la loro forza non è frutto di atti eroici, ma di quell’umile fede che sa abbandonarsi alla certezza dell’amore del Padre. Essa a volte si mostra invincibile e ci lascia sorpresi per la sua profondità. Come non pensare agli esempi di uomini e donne che nei campi di concentramento hanno saputo testimoniare tutto ciò rimanendo fedeli al proprio credo, o ai valori della giustizia, della solidarietà? O come non pensare a tanti esempi di ammalati che spesso in situazioni difficilissime si presentano a noi con una serenità trasfigurata che ci lascia senza fiato? (Cfr. San Giovanni Paolo II, ibidem). Essi non amano “la croce per la croce” ma credono e sperano nella vita senza fine, nell’incontro con quel Padre di cui conoscono il volto. Credono nella bellezza della vita. Senza arrivare a questi estremi, è facile capire che in qualche modo tutto ciò riguarda tutti. Se io chiedo a Dio la virtù della fortezza in fin dei conti non faccio altro che chiedere a mio Padre di sentirmi capace di rimanere nelle situazioni difficili o anche solo in quelle che mi costano. E ciò è possibile solo a partire dalla fede, dalla fede nella Resurrezione di Cristo, altrimenti sarebbe solo sterile volontarismo. In questo modo “in ogni tua attività, dal momento che puoi contare sulla fortezza di Dio, devi comportarti come chi è mosso esclusivamente dall’Amore (Amici 71). Se è vero che la fortezza risiede nella relazione con Dio e con il prossimo, come dicevo più sopra, è pur vero che ciò è possibile solo nella fiducia. Aveva ragione allora San Josemarìa quando ci richiamava ad essere “quasi modo geniti infantes, bambini che desiderano la parola di Dio, il pane di Dio, l’alimento di Dio, la fortezza di Dio, per comportarvi come veri cristiani” (Amici 146), perché è il bambino che sa che la sua forza risiede fuori di sé, nella relazione e nell’amore dei suoi genitori. “Quanta fortezza per un figlio di Dio, sapere di essere tanto vicino al Padre! Pertanto, qualunque cosa succeda, sono saldo e sicuro con te, Signore e Padre mio, che sei roccia e fortezza” (Amici di Dio 246). Concludo con delle meravigliose parole di Giovanni Paolo II: “…Il punto culminante di quella storia è la Risurrezione di Cristo e la risurrezione è la rivelazione della bellezza assoluta, la rivelazione preannunciata sul Tabor. E gli occhi degli apostoli rimasero incantati da questa bellezza, desiderarono rimanere nel suo cerchio e la bellezza della Trasfigurazione diede loro la forza per sopravvivere all’umiliante Passione di Cristo Trasfigurato. La bellezza è per l’uomo fonte di forza. È l’ispirazione al lavoro, è la luce che porta in mezzo alle tenebre dell’umana esistenza, che permette di superare con il bene ogni male, ogni sofferenza in quando la speranza della risurrezione non può deludere… La nostalgia del cuore umano di quella bellezza originale che il Creatore diede all’uomo è al tempo stesso la nostalgia della comunione in cui si rivelava il dono disinteressato…” (Come Gesù p. 300-301).
Questa lezione fa parte di questa raccolta di lezioni sulle virtù cardinali
Mauro Leonardi – Quattro lezioni sulle virtù. La prudenza
Mauro Leonardi – Quattro lezioni sulle virtù. La temperanza
Mauro Leonardi – Quattro lezioni sulle virtù. La giustizia
Mauro Leonardi – Quattro lezioni sulle virtù. La fortezza