Le Lettere di Sandokan – Repubblica & me
Vi ricordate di quelli che mi raccontavano che un buon cristiano non legge Repubblica?
Sono frasi del genere che fanno branco, che fanno massa.
Vivevo assieme a “loro” e assieme ad “altri”, quando ero studente universitario. “Loro” erano quelli che non leggevano Repubblica e che, se te la vedevano in camera, ti venivano a fare il discorsetto; gli “altri” erano quelli che avevano un parco letture più vario.
Naturalmente non era “vietato” leggere Repubblica, tant’è vero che io l’ho sempre letta negli anni in cui “io” e gli “altri” abbiamo vissuto assieme. E non solo la leggevo, ma la lasciavo sul mio letto nella mia camera, in modo che si vedesse chiaramente ciò che facevo. Non che fossi un “rivoluzionario” (e non ero l’unico a comportarmi così), ma non mi è mai piaciuto nascondere quello che sono e che faccio, meno che mai nel luogo che ho scelto come casa mia. E il luogo dove vivevo allora era, per me, casa mia.
C’erano però altre categorie di persone oltre a quella a cui appartenevo io. Le categorie che avevano il maggior numero di adepti erano due:
– gli aspiranti “loro”, quelli che volevano “meritare” di far parte dei “loro” e di distinguersi finalmente dagli “altri” (ossia da quelli come me) e che quindi Repubblica non la leggevano;
– quelli che semplicemente non volevano avere la seccatura di avere un tizio che ti si piantava in camera per farti un sermone sulle tue letture un pomeriggio sì e uno no, e quindi nascondevano Repubblica sotto il materasso.
C’erano anche, alcuni tra gli “altri” che sul punto in questione – sulla leggibilità di Repubblica per un buon cristiano – la pensavano come i “loro”, ma erano pochini.
L’unica cosa chiara a tutti, ma proprio a tutti, era che leggere Repubblica era considerato un atto trasgressivo, che non si poteva fare: era più chiaro che se fosse stato scritto a caratteri cubitali sugli stipiti di ogni porta.
Mi son sorbito un bel po’ di discorsi, ma ero uno dei pochi che si sentiva a casa nel luogo in cui viveva (ed era una bella casa, con tante belle persone), senza roba sotto i materassi. Certo, con la rottura di scatole di chi ti veniva a fare i discorsetti, ma con la serenità che derivava dal non doversi cambiare d’abito a seconda di chi bussa alla tua porta.
Non leggere “Repubblica” era soltanto una delle regole non scritte che “loro” desideravano fossero seguite. Ce n’erano molte altre. “Loro” non erano come gli altri, anche se ti dicevano di esserlo. Alle volte mi veniva da pensare: chissà quanti di questi “loro” sono come me, ma non lo possono dire … perché hanno scelto di non dirlo o non hanno trovato un ambiente favorevole alle confidenze: pieno di fratelli, ma senza amici. E vivono mentendosi a vicenda, nel segreto dei loro cuori, sacrificando la libertà al consenso. Certo è anche colpa loro, a volte, ma è soltanto colpa loro?
Avevo poi anche un’altra casa, quella in cui ero nato e nella quale vivevano i miei genitori, e nella quale tornavo, d’estate. Qualche volta qualcuno dei “loro” veniva a trovarmi, sapete? Per me a volte erano momenti un po’ imbarazzanti.
Avrei accettato qualunque giudizio su di me da qualcuno dei “loro”, non mi importava nulla di essere considerato da questi un malato da guarire, ma non avrei sopportato di leggere disprezzo dentro casa dei miei, davanti a mio padre che leggeva Repubblica nel salotto di casa nostra o davanti al due pezzi di mia sorella. Sembrava volessero dirmi: “pensa quanto ti voglio bene, se son venuto sin qui a sorbirmi tutto questo”. Per cui, per evitare dolori, finivo per prepararmi ad accoglierli a casa dei miei, chiedendo a mio padre di leggere il Corriere della Sera, per un giorno, e a mia sorella di mettersi il costume intero, se per caso qui “loro” avessero espresso il desiderio di farsi un bagno al mare.
Quando poi mi sono sposato è stata mia moglie a spiegarmi che noi a casa nostra facciamo quello che ci pare e che lei si sarebbe messa il costume che indossava abitualmente: “Se ai tuoi amici il mio costume non piace, che se ne stiano a casa loro”. E poi ha aggiunto che lei non avrebbe mandato nostra figlia a casa “loro”, perché le insegnassero a disprezzare casa nostra.
La mia comunque è una storia a lieto fine. Sapete perché? Perché ho scoperto che i “loro” non sono tutti uguali. Ci sono alcuni che sono diventati “nostri” e che mi sorridono quando mi vedono, anche se dovessi accoglierli in costume da bagno, cosa che mi capita spesso d’estate.
Mi danno l’impressione, quando entrano a casa mia, di inginocchiarsi davanti al nostro matrimonio con la stessa solennità con la quale si inginocchiano davanti ai tabernacoli delle loro case. Non lo fanno semplicemente perché noi non siamo di marmo e ci potremmo montare la testa, però quando si chiudono nella stanza della nostra casa che li ha accolti da amici, chissà.