Blog / Sandokan | 26 Marzo 2015

Le Lettere di Sandokan – Ricordare

“Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”.

Ho letto il libro di don Ricardo Reyes che è stato presentato in questo blog. Non voglio farne qui una recensione, ma soltanto riflettere ad alta voce intorno a una delle cose che vi ho trovato scritte e che mi hanno più colpito:  lo Spirito Santo è inviato agli uomini perché “ricordino”.
Non è un pensiero originale di don Ricardo. E’ scritto nel Vangelo, nel versetto di san Giovanni che ho riportato all’inizio di questo post. Ma io a quelle parole non ci avevo mai fatto troppo caso. E così mi sono messo a riflettere con più cura riguardo a che cosa esattamente dovesse ricordare – a Pietro, a Giovanni, a tutti i testimoni di quei fatti – lo Spirito Santo.
Quanto è accaduto in quei giorni i discepoli e gli Apostoli non lo potevano certo dimenticare in fretta. Non potevano dimenticare la loro vita prima di incontrare Gesù e i tre anni passati insieme a lui. E’ tuttavia vero, per tutti, credo, che mai si riesce a comprendere pienamente il senso delle cose che accadono mentre accadono. Il “ricordare” dello Spirito Santo non è l’opposto del “dimenticare”. E’ piuttosto per i discepoli un “ricollocare” – nel tempo, con pazienza – tutti i fatti della loro vita, che non avevano affatto dimenticato, all’interno della loro “storia” personale, che è sempre parte di una storia più grande.
Non sempre una vita è una “storia”. Quasi mai poi sembra una storia a chi la sta vivendo, mentre la sta vivendo. A volte sembra un insieme di “attimi” in un mare di noia. In questo mare di noia, quando capita qualcosa di bello “da acchiappare”, non è da stupidi farselo sfuggire? In effetti  non si può dire che lasciarsi sfuggire gli “attimi” sia una cosa intelligente, non mi pare saggio ignorare o trascurare il presente.
Neanche lo Spirito Santo lo trascura. Sembra piuttosto che, tra i suoi molteplici impegni, si affanni a raccogliere i nostri “attimi” perduti (quelli che nell’Orlando Furioso Ariosto colloca sulla Luna) per costruirci una storia. Una storia che poi ci racconta, come se fosse una favola. Ma non lo è. E poi lui le storie le sa raccontare. I nostri attimi diventano una storia delle storie del mondo, a starle a sentire da lui.
Certo, uno potrebbe pensare che noi, al contrario dei discepoli e degli apostoli, non abbiamo mangiato o passeggiato o chiacchierato o lavorato con Gesù. Cosa dobbiamo ricordare, noi?
Naturalmente non ho nessuna risposta a questa domanda, non so proprio cosa debba ricordare Tizio o Caio. E’ utile tuttavia riflettere sul fatto che neanche i discepoli e gli Apostoli avevano idea di cosa stessero vivendo, non sapevano affatto chi era davvero colui al fianco del quale passavano le loro giornate. I discepoli e gli Apostoli seppero tutto dopo, quando “qualcuno” glielo ricordò. Neanche la risurrezione dai morti e l’Ascensione li rassicurò completamente. Ci volle la Pentecoste.
La Chiesa dice che Gesù è Cristo. Ma io che dico? Posso ripetere ciò che dice la Chiesa e sentirmi “apostolo”, e posso anche sentirmi offeso davanti a chi dice che Gesù non è nessuno, o davanti a chi lo offende o bestemmia il suo nome.
In realtà però uno non può dire che Gesù è Cristo per “esperienza” (né propria, né altrui). Non può dirlo finché lo Spirito Santo non glielo rivela nella sua vita, facendogli rileggere quotidianamente la sua storia, aiutandolo a “scovarlo”, quasi, tra i mille fatti, i mille personaggi, le mille situazioni che hanno contribuito a fare ciò che non siamo oggi fin dal giorno in cui siamo venuti al mondo. La fede è questo desiderio di “cercarlo” tra le mie cose (è il desiderio che i miei “attimi” diventino “storia”) e la speranza è la sicurezza di “trovarlo” tra le mie cose: entrambi sono doni dello Spirito Santo.
A volte tutto questo significa accettare le domande, i dubbi, che la vita stessa ci pone senza aver fretta di dare risposte da manuale, risposte un po’ indiscrete. Oscar Wilde rispondeva a chi credeva di fare domande “indiscrete” che le domande non lo sono mai e che solo le risposte, a volte, corrono questo pericolo. Bisogna aver pazienza con gli “irrisolti” nel nostro cuore.
Bisogna “vivere le domande” come suggeriva Rilke al suo giovane amico poeta, senza seppellirle con risposte “indiscrete”: “non cercate ora risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere. E di questo si tratta, di vivere tutto. Vivete ora le domande. Forse v’insinuate così a poco a poco, senz’avvertirlo, a vivere un giorno lontano la risposta”.