Blog – Se la patologia di una donna è quella di essere donna
Un articolo del 28 febbraio scorso sul New York Times ha destato grande attenzione perché descrive la tendenza inconscia, di medicalizzare, nelle donne, gran parte di quel mistero che le rende diverse dagli uomini. “Adesso, in America almeno una donna su quattro prende un farmaco psichiatrico, contro un uomo su sette. Le donne hanno quasi il doppio delle probabilità rispetto agli uomini che venga loro diagnosticata una depressione o un disturbo d’ansia. Per molte donne, questi farmaci sono indispensabili, migliorano notevolmente la loro vita. Ma in molti casi non sono necessari. L’aumento delle prescrizioni per i farmaci psichiatrici, spesso fatte da medici non specialistici, tende alla creazione di una nuova normalità. ” Ma questa normalità è un maschilismo che non tiene conto delle differenze. Insomma, è vero che “maschio e femmina li creò” ma uomo e donna si diventa. E il processo, culturale e sociale, è ancora lungo e siamo ben lontani dall’averlo completato. “Molte ricerche suggeriscono che le donne spesso sanno articolare meglio i loro sentimenti rispetto agli uomini perché, per come si sviluppa il cervello femminile, destina maggior capacità al linguaggio, alla memoria, all’udito e alla capacità di osservare le emozioni altrui.” A proposito di un cadavere, un giudice potrebbe sentirsi dire da un testimone maschio: “Sì, signor giudice: sono entrato alle cinque nello spogliatoio della piscina e ho trovato il signor Rossi, a terra, morto, in un lago di sangue”. Invece, se il testimone fosse una donna il racconto potrebbe essere: “In genere il pomeriggio porto mio figlio Giovanni a nuotare perché ha problemi di scoliosi. Prima andavamo in palestra ma poi l’insegnante non era bravo: così abbiamo deciso di andare in piscina. Questa, non quella comunale, che è sporca. L’autobus non arrivava e allora abbiamo preso la macchina. Meno male che mio marito non la usa. Cioè, meno male no, perché adesso è disoccupato. Era meglio prima quando la usava per viaggiare, ma insomma l’auto era libera. Quindi, entro con Giovanni nello spogliatoio e mi accorgo che c’è qualcosa di strano. Non capisco subito che c’era ma anche Giovanni mi ha stretto la mano con più forza. Mi creda signor giudice, ancora non avevo visto nulla ma già avevamo un nodo allo stomaco. Poi, aperta l’anta, intravvediamo quella scena orribile. Io ho urlato e ho messo una mano sugli occhi di Giovanni. È piccolo e non voglio che veda scena del genere. Una volta, da piccola, sono passata vicino a un incidente e mi ricordo ancora gli occhi del morto con la testa spaccata. Sono passati quarant’anni, sa, ma è come se fosse oggi. Non voglio che mio figlio cresca così. Quindi, alla fine siamo usciti gridando per chiedere aiuto. Sì, in effetti non so bene cosa ho visto.” Molto probabilmente il giudice plaudirebbe al maschio e invece ascolterebbe spazientito la donna. Salvo poi magari scoprire – se ascoltasse – che, involontariamente gli potrebbe fornire qualche elemento importante per l’indagine. Non solo una società maschilista plaude alla prima versione. Peggio ancora, induce, spesso in modo subliminale, la donna ad appiattirsi su quel modello. Perché il punto è che sono le donne a disprezzare le loro caratteristiche migliori. Le donne dicono a se stesse che non vanno bene. È successo piano piano. Le madri alle figlie, l’amica all’amica, la professoressa all’alunna, la direttrice alla neo assunta, la collega alla collega. Il passa parola tra le donne è che non va bene essere emotive, empatiche, capaci di ascolto, capaci di accudire, dedite al servizio, materne, creatrici, fantasiose, lunatiche, simbiotiche. Molte donne sono convinte che la patologia di una donna è essere donna. Scrive l’autrice: “L’emotività delle donne è un segno di salute, non di malattia; è una fonte di energia. Ma siamo costantemente sotto pressione perché spinte a trattenere la nostra vita emotiva. Ci è stato insegnato a chiedere scusa per le nostre lacrime, a sopprimere la nostra rabbia e ad avere paura di essere chiamate isteriche.” Alle donne è stato insegnato a chiedere scusa per quello che sono. E prima o poi, come tutti i bambini, hanno imparato che chiedere scusa non basta. Che bisogna cambiare atteggiamento. Non lo devo fare più, se no sono cattiva. Se no sono fuori. Se no non gioco più. E allora le donne non lo fanno più. Perché non vogliono stare fuori, vogliono giocare ancora.
“Ho avuto una paziente che mi ha chiamato dal suo ufficio in lacrime, dicendo che aveva bisogno di aumentare la sua dose di antidepressivi perché non poteva essere vista piangere al lavoro. Il suo capo l’aveva tradita e umiliata di fronte a tutto il personale. Dopo averne discusso però, abbiamo deciso che era necessario un confronto calmo con lui: non, ancora più farmaci.” È un impegno di tutti, non solo delle donne. Fare in modo che queste ultime non dimentichino che tutto ciò che sono ha permesso all’essere umano di essere qui, di scrivere, di leggere, di amare, di vivere, di lavorare, di morire. Di essere uomo.
Qui l’articolo del New York Times, Medicating Women’s Feelings
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