Il Sussidiario.net – Kayla Mueller/E’ morta “libera”in prigione, parlando di Dio.
Giambattista Torellò, sacerdote e psichiatra, saggista e poeta, catalano, siculo e austriaco, amico di Victor Frankl, stava terminando, una decina d’anni fa a Roma, la sua conferenza. È morto nel 2011 all’età di 91 anni, e quindi nel 2006 era vecchio. Ma era sempre straordinario. Non ricordo chi citò – un autore medioevale – ma ricordo come lo disse: “pazzo, l’amore è ciò che fa prigionieri i liberi e liberi i prigionieri”. Per amore di qualcuno si è pronti a dar la vita, a morire in carcere; e, se è così, il carcere non esiste più, perché diventa amore, e quindi libertà. Escludo che Kayla Mueller conoscesse Giambattista Torellò e i madrigali medioevali. Forse, chissà, aveva letto Etty Hillesum che avrebbe potuto senz’altro scrivere nei suoi Diari qualcosa del genere, ma di certo, Kayla, si è giocata fino in fondo le carte che la vita le ha messo in mano. Ha vissuto fino in fondo la sua vita. Giambattista Torellò, mentre parlava, teneva nel silenzio trecento persone non perché facesse una citazione dotta, ma perché quelle parole “non sue” erano “sue”: erano di un uomo che, avendo vissuto, aveva attraversato con coraggio e dolore ed amore, la morte e la vita, la prigionia e la libertà. E così, per forza, è accaduto a Kayla Mueller che, a 26 anni, morta in ostaggio dell’Isis, scrive nella sua ultima lettera “mi è stata mostrata la luce nell’oscurità e ho imparato che in ogni prigione si può essere liberi”. Kayla nella sua lettera parla apertamente di Dio, ma anche se non l’avesse fatto, Dio ci sarebbe stato lo stesso. Durante la prigionia ha scritto, un capoverso alla volta, una lettera ai suoi genitori.
Non si sa come sia morta. Dicono in un bombardamento. Hanno fatto vedere il corpo ai genitori.
È una lettera da leggere e rileggere come si leggono le lettere d’ amore di un amore lontano. È strano come chi vive veramente arrivi sempre a scoprire che i conti tornano. La luce oscura, la prigione libera, la sottomissione conquistatrice, la sofferenza desiderata, la cecità vedente, la malattia preferita, il dolce martirio. Mentre rileggo queste parole, se leggo prigione libera posso pensare a un monastero di clausura, a una stanza d’ospedale, al letto d’amore di due amanti, a una madre che porta per mano un figlio. A un monaco del ‘300 o alla prigione dell’Isis. È il paradosso dell’amore. È ciò che spiega come, nell’amore, il comportamento moderato sia l’ errore decisivo.
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