Blog / Sandokan | 05 Febbraio 2015

Le lettere di Sandokan – Parlare d’amore stanca

Certo, parlare d’amore dopo un po’ stanca.
Mia moglie, che lo sa, non ne parla mai. Sarebbe capace di sbadigliare … o di arrossire … a sentire certi discorsi.
Sì, è vero, ogni tanto mi chiede: “tu, mi vuoi bene?”. Ma non è una vera domanda, di quelle dopo le quali ci si ferma, attendendo che accada qualcosa … tipo una risposta, una serenata o un bacio. E’ piuttosto un intercalare, infilato tra i suoi racconti, preceduto e seguito da una pausa molto breve in cui è opportuno non fiatare. Serve a tenere legate tutte le sue storie, di cui mi parla quando torna a casa dal lavoro, di solito all’ora di cena.
Certe volte io sto lì ad ascoltarla, impaziente, aspettando il finale, aspettando che la massa di dettagli di cui mi riempie la testa mi conducano da qualche parte. Spesso le chiedo di tagliare corto, di semplificare, di arrivare al “dunque”. Ma il dunque non c’è. Manca il “punto” nei suoi discorsi. O forse c’è, ma la sua grammatica è diversa dalla mia. Il suo “punto” è: “non vedevo l’ora di dirtelo”.
Ed è vero, sapete? Perché spesso non ce la fa proprio ad aspettare fino a cena. E allora prende il telefono e chiama. Chiama me. Quando non posso darle retta, o non ho voglia di ascoltarla, lei si interrompe – “hai da fare, vero?”, mi dice – e si affretta a salutarmi, rimandando tutto “a dopo”, a quando ne avrò voglia, a quando avrò più tempo per lei.
A lei piace moltissimo il suo lavoro, di quello spesso mi parla – delle cose che le capitano, delle persone che incontra – ma credo che tutto questo le interesserebbe di meno se non lo potesse raccontare, se non lo potesse raccontare a me.
La sua gioia sta nel ricollocare le sue “giornate”, in una prospettiva di racconto. Sembra quasi che lei “lavori”, “viva” per poterlo poi raccontare, per poterlo raccontare a me. Certo c’è sempre un po’ di vanità nel raccontarsi agli altri, anche ai coniugi, un po’ di desiderio di ricevere apprezzamento. Ma, accanto a questo, c’è di più. Lei, riempiendo le sue storie di mille dettagli, vuol farmi sapere che tutto sarebbe stato bello, più bello, se ci fossi stato anch’io accanto a lei.
E’ una rilettura quotidiana della vita, fatta in compagnia di chi si ama, che toglie peso alla realtà senza per questo rifiutarla, senza sfuggirle. Anzi la realtà diventa necessaria al racconto. E lei ama uscire fuori di casa, per poi tornare in casa a raccontare.
Li peni sunnu ruci si tu mi runi a paci*”. E’ un verso di una serenata siciliana che forse è utile a spiegare quello che voglio dire. Si diventa più allegri, si addolcisce la vita, grazie al racconto e alla pace che ricava dall’essere ascoltati. Perché la pace lei se l’aspetta da me e non dalle pene (o dalle gioie) che regala la vita.
Certo, io faccio quello che posso. “Come fai a non desiderare di chiamarmi subito quando ti capita qualcosa da raccontare?”, mi dice ogni tanto. Ma non lo dice per rimproverarmi, piuttosto è sorpresa dal fatto che io sia diverso da lei. Non me ne fa comunque una colpa “personale”. Secondo lei è piuttosto una colpa di “genere”, è una sensibilità che non posso avere perché è stata riservata soltanto alle donne.
Gli uomini, almeno la maggioranza di quelli che conosco, hanno una grammatica elementare semplice, un po’ come l’inglese. A loro basta poco per costruire una frase. Certo, con “poco” si riesce a dire “the cat is on the table”, non di più. Ma molti si accontentano, credono sinceramente di essere vivi, semplicemente perché sanno dire dov’è il gatto. E molti, per tutta la vita, non dicono altro.
Mia moglie sa dov’è il gatto, lo sa dire e me lo dice pure. Ma me lo dice con la stessa tensione con la quale io dico di voler parlare con Dio, con la stessa speranza che le mie piccole storie lo interessino, che non abbia cose più importanti da fare che stare a sentire me, che non mi chieda di arrivare al “dunque”. Perché io, il “dunque”, non so qual è. Neanche mia moglie lo sa. Lei, il “dunque” se lo aspetta da me.

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* Le pene sono dolci se tu mi dai la pace