Blog / Sandokan | 28 Gennaio 2015

Lettera di Sandokan – Tra palco e realtà

Nel 1966 san Josemaría Escrivá , il fondatore dell’Opus Dei, parlando al quotidiano francese “Le Figaro” di Cammino, il suo libro più noto, disse che non voleva essere “un codice per l’uomo d’azione”, ma “un libro fatto per portare l’anima al dialogo con Dio e spingerla al servizio di tutti gli uomini”.
Spingere l’anima al servizio di tutti gli uomini è “il santo desiderio del fervente cristiano”, per usare le parole di sant’Agostino, un desiderio che non è affatto scontato, né acquisito una volta per tutte, neanche da chi ha fatto scelte di vita di “rinunzia” o di “sacrificio”. E neanche da chi ripete di “voler servire” ogni mattina.
Questo desiderio – che può nascere per diversi motivi, spesso persino da un sincero atto di generosità – è destinato presto a scontrarsi con la realtà, una realtà fatta di persone che mostrano concreta indifferenza (camuffata, magari, da parole colme di ammirazione) nei confronti delle nostre scelte e dei nostri desideri: non hanno alcuna voglia reale di farsi servire da chi dichiara di volerli servire.
«Mamma, li vedi? Non mi fanno “servire”! Dì loro che sono il bambino più bello e più bravo del mondo, come mi dici sempre prima di addormentarmi». Così verrebbe da urlare, se uno fosse un bambino e se ci fosse qualcuno a cui urlarlo, con cui lamentarsi, a cui chiedere aiuto o consolazione.
Ma a volte non c’é. E allora che si fa? Si porta il “pallone”, un pallone bello, il più bello di tutti, mio. Certo, se me lo posso permettere o se qualcuno me lo ha regalato. E allora divento io quello che “accetta” o che “rifiuta”, perché il pallone – bello, costoso, di cuoio – è mio. E attorno a me si raccolgono tutti quelli che un pallone come il mio non se lo possono permettere e che hanno bisogno, per vivere, di dare un calcio a qualcosa di bello, di tanto in tanto. E io li accontento … e penso di servirli … e forse un pochino lo faccio anche. Giusto un pochino.
Alcuni altri poi decidono di “non servire” affatto. O di mantenere le distanze dagli altri. Per non farsi rifiutare. Sono i “cattivi”, quelli che pensano solo a sé: questo si dice in giro di loro. E’ gente sincera, a volte, che ha una chiara visione della realtà altrui, ma una ingenua visione di sé, del proprio desiderio di “servire”, che è rimasto in fasce dentro di loro, come se fosse un bambino abbandonato tra i rifiuti.
Il desiderio di “servire”, che nasce sempre un po’ ingenuamente nel cuore delle persone generose (di solito nell’adolescenza, quando tutti siamo generosi), deve prendere forza nel tempo, deve diventare meno ingenuo, ha bisogno di modellarsi continuamente – sul corpo, sulla vita, sulle relazioni – di chi, ogni giorno, continua a ripetere a se stesso che “vuole servire”.
Chi “vuole servire” deve diventare “servo”, avere desideri “da servo”, questo è il problema. Questo è il viaggio dai desideri alla realtà che porta dolore. Perché quando uno diventa “servo”, se poi scopre che non ha nessuno da servire, cosa può fare?
“Servire”, nella vita attiva, significa trasformare i desideri in opere concrete, facendo uso delle proprie abilità e dei propri talenti. Le opere sono ciò che dei nostri desideri è sempre visibile agli occhi altrui. E noi lo sappiamo e, con le opere, qualche volta, inganniamo.
Sappiamo che l’apprezzamento che riceviamo per le nostre opere ci spinge a lavorare meglio. E non è certo un male lavorare anche per la gloria. Ed è anche giusto essere apprezzati per il frutto dei nostri sforzi. Ma non può essere certo una “pretesa”. Siamo servi o no?
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Lavorare “da servi” è diverso dal “lavorare per servire”, è un’altra cosa. Significa accettare che le proprie opere, a prescindere dai propri desideri, siano giudicate dagli altri: da chi ne gode e da chi le rifiuta. Giustamente o ingiustamente. Sono opere poi che non pretendono ringraziamenti e che non desiderano costruire dipendenze: non deve costare troppa fatica, alle persone che serviamo, separarsi da noi quando i casi della vita, prima o poi, ci allontaneranno da loro.
Tra tutti gli altri che giudicano le nostre opere, poi, c’è Dio, che è “negli altri”, “nelle relazioni tra me e gli altri” ed è anche “altro rispetto agli altri”. Lui le guarda sempre dal punto di vista dei nostri desideri e di ciò che siamo, dal di dentro.
Se le relazioni con gli altri ci aiutano a migliorare le nostre opere, nella preghiera Dio si mette a guardarle con noi, dal nostro punto di vista, che non è estraneo al suo perché ci ha fatto lui, da amico. Questo sguardo comune purifica i desideri, e cambia le opere, anche se, a volte, restano sempre uguali per chi le guarda da fuori.
Ma non per noi, non più oramai. Noi le vediamo come sono in realtà: unite ai nostri desideri.

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