Blog / Lettere | 22 Novembre 2014

Le Lettere di Paolo Pugni – Cerco la verità

Girovagando –e dai è una fissa- in rete capito su un socialcoso e su questo post che cito per intero:
“Se mio figlio non avesse data la vita per me quando era ancora nella mia pancia, io adesso sarei sposata ad un uomo profondamente violento che mi aveva picchiato ed avrebbe continuato a farlo. Infelice e depressa, forse non ce l’avrei fatta… Grazie, figlio mio, perché ti sei sacrificato, liberandomi e allontanandomi da una persona del genere. Sei il secondo uomo che mi salva la vita… Il terzo, se contiamo Gesù. Grazie, Signore, per la tua misericordia infinita!… Chissà che grandi cose devo fare per rendere grazie di un tale dono!… Mi farò accompagnare da te nelle scelte!… Mi posso fidare, lo so!”
E inizio a riflettere.
Non per parlare di questa mamma, no.
Chi sono io per giudicare una donna che ha commesso un errore, ha chiesto e ottenuto perdono e sconta nel suo rimorso un dolore che prima o poi diverrà altro e liberazione? Ha tutto il mio affetto.
Mi interessa invece ragionare di un atteggiamento che estrapolo –bada bene: estrapolo non commento- da questo post e dallo scambio che ne è seguito per discutere di come alle volte scatti in noi un meccanismo di autodifesa che distrugge la verità.
Va bene, confesso, ho risposto a questo post commentando che non era da escludere che quel figlio, fosse nato, potesse compiere un altro miracolo: trasformare un uomo violento in un padre affettuoso e un marito devoto. E si scatena la bagarre: che si arriva ad asserire che la mia affermazione nega il sacrificio di Cristo in croce. Come è ancora mistero.
In pratica si afferma che no, non sarebbe stata una scelta possibile quella di farlo nascere questo figlio perché quell’uomo non sarebbe potuto mai cambiare. Ma dove sta scritto? Vogliamo mettere limiti ai miracoli di Dio?
Ma ciò che mi colpisce è come per giustificarci, non parlo adesso di questa signora, parlo in generale, ci costringiamo a credere ciò che è lontanissimo dalla verità, o anche solo dalla possibilità, che neghiamo per difendere le nostre scelte.
Vale anche quando cerchiamo di fare del bene? C’è un confine oltre il quale spingersi non è più carità –nel senso della bilancia di san Paolo quella che sull’altro piatto mette la verità- ma solo la nostra vanità? Esiste una vanità del bene? Un agire non per realmente fare cose buone ma per apparire? Don Ugo Borghello in tutto ciò che ha scritto, e in quel poco che ho capito, pare dire di sì, che questa apparenza a volte ci travolge così tanto da svuotarci, per riempirci di noi stessi.
So che sono pessimo giudice di me stesso, come forse molti, chi riesce a valutarsi con serenità mi insegni come fa per favore, ma ho consapevolezza che questa patologia dell’anima è frequente e diffusa, che non colpisce solo me.
Si parte da un’azione e si finisce per spingerla sempre più in là senza rendersi conto di aver varcato un confine, che c’è sempre perché la virtù sta in mezzo non nel senso che è mediocre ma che è equilibrio, che son due cose differenti.
Ho l’impressione che siamo spessi travolti da un ipertofismo dell’io buono, che ci fa iniziare crociate senza fine che se partono bene, finiscono per diventare guerre personali, esotismi per far vedere quanto io abbia realmente capito il vero senso della parola di Gesù.
Mi è molto d’aiuto in questo periodo leggere il testo di Maria Valtorta, il suo vangelo se così si può dire, perché ci vedo un Gesù vero, concreto, diretto che mi insegna ad amare sempre di più abbandonando me stesso.
Ma si fa fatica.

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