Blog / Lettere | 13 Settembre 2014

Le Lettere di Paolo Pugni – Che ne sai tu di un campo di grano

Oh che disastro io mi maledico! Mi sono infilato in un bel pasticcio. Che da due settimane mi tormenta. E dimostra due cose che mi sembrano ormai matematiche:
–       ci perdiamo a seguire con gli occhi un airone e ci ritroviamo a volare o ad urlare da altri “che ne sai della nostra ferrovia, che ne sai?”. E se qualcuno prova a rispondere rincalziamo “e di un mondo tutto chiuso in una via?”. Con piglio da chi vuole spaccare il mondo invece di tenersi tra le mani la testa.
–       Che finiamo per confondere ciò che mette ordine, permette di capirci e di usare il linguaggio comune, con la gabbia che rinserra e stronca.
Premetto che sono un chimico e che estraggo per tracciare: mi piace guardare al web come ad un infinita provetta, che a volte –confesso- provoco per vedere l’effetto che fa. E poi adoro prendere quei segni, piccoli, personali, e connetterli con un tratto di penna per estrapolare una regola, una interpretazione, uno scenario. Che a quel punto non ha nulla a che vedere con l’origine che ha dato lo spunto. Ma che mi aiuta a leggere me e il mondo. E a cambire. Me: ci provo; il mondo: anche.
Adesso vi dico cosa mi atterrisce e che vedo fortemente dipinto nelle mie letture sociali di queste settimane: perdere il senso della realtà. Trasformare le pietre in pani, (per dirla con l’omelia di don Fabio postata questa settimana: ve la siete gustata vero?) partendo dall’esaltazione dell’io. Della mia esperienza.
C’hanno talmente fatto il lavaggio del cervello con questa menata del vissuto, della condivisione della mia vita, che ci siamo illusi di essere il centro del mondo, che quello che vedo io è la verità.
Non dialoghiamo più: condividiamo testimonianza.
Guardo commenti recenti in rete: disegnano me, io, me stesso, io che ho sofferto –ognuno a modo suo, forse alle fine tutti nel medesimo modo. E chi non ha sofferto nella vita? Che ne sai di una bambino che rubava?- e che quindi ho diritto di dire la mia sulla vita. Certo. Ci mancherebbe. Ma non è detto che sia la verità o che l’esperienza abbia il diritto di trasformarla in verità.
Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi…. generalmente ce ne freghiamo di quello che vuoi tu e vogliamo noi, vogliamo mettere giù duro che se a noi è successo così, quella è la vita.
Se io me la sono sfangata col cuore, allora è con il cuore che bisogna guidare per evitare le buche più dure. Se io ho incontrato una autorità che si squadernava in arroganza ed abuso di potere allora l’autorità è cattiva. Se io mi sono salvato grazie alle regole, allora sono le regole che salvano.
Giudichiamo la verità partendo da noi invece che farci plasmare. Che credere che esiste una verità che ci precede e che dobbiamo calare nella realtà.
La verità siamo noi, come Renato che in ogni discussione interviene citando se stesso per affermare che quello che scrivono gli altri sono stronzate –no, lui non lo direbbe mai, è penna fine e delicata, che solleva il sopracciglio davanti alle scurrilità e alla scimitarra verbale- e che le sue affermazioni sono inattaccabili.
La verità siamo noi che brandiamo la nostra esperienza, o quello che la vita ci finisce per far credere sia stata la nostra esperienza -perché non pensiate che il tempo e il vento non la idealizzino, la ideologizzino, la plasmino, la corrompano, la affilino- per confutare non i discorsi o i ragionamenti altrui, ma la loro propria esperienza.
Così trovi sulla penna –ecco un limite, mai le labbra perché nessuno di quelli che qui dialoga l’ho mai guardato negli occhi nel dire questo, al massimo nell’icona o nel nickname- di persone che reputi pacate, stimate, rette, belle dentro e fuori, elogi per aborto, divorzio rapido, infedeltà e amenità varie perché dentro la loro vita ci stanno queste cose e non possono lavarle via e allora meglio tradurle in bontà per non doverci convivere con la possibilità di errore, non dico peccato, ma senz’altro orrore.
Prendila così, se non vuoi farne un dramma, sono terrorizzato, e quindi irritato, dalla egolatria emergente in questa autoreferenzialità che cancella anche il senso delle parole, perché lo intride così tanto della MIA esperienza da renderlo incomprensibile.
Perché amarsi un po’ è come bere, ma volersi bene no, è difficile quasi come volare. Vale a dire che non sappiamo più distinguerli: che cosa è amore? Che cosa è cuore? È spontaneità? È coscienza? È affettività? È quello che mi sento? È andare verso gli altri?
Se perdiamo la grammatica non riusciamo più a parlare neanche a noi stessi, se confondiamo le parole facendole diventare quello che sta dentro la nostra storia e non nel dizionario, tutto è smarrimento.
Senti in rete, al bar, tra amici che tutti vogliono essere quello che sono senza mediazioni. Perché riflettere nelle relazioni è menzogna.
Siamo sicuri? Siamo sicuri che tutto quello che mi viene in mente lo devo dire, specie in faccia ad altri? Siamo sicuri che non valga la pena tacere non per ipocrisia, ma per carità? Che buttarsi fuori vivendo, così come sono, non sia sincerità ma invece una profonda forma di egoismo?
Questo mi spaventa, e ve lo voglio dire chiaro, non perché abbia soluzioni, ma perché le cerco. Insieme a voi.
Forse non lo sai ma pure questo è amore.