
Blog – L’albergatore e il buon samaritano
Nella XV domenica del tempo ordinario la Chiesa propone ai suoi fedeli la contemplazione del racconto del buon samaritano (cfr Lc 10, 29-37) una delle parabole che fonda il cristianesimo e la nostra civiltà. In quest’occasione propongo una mia riflessione in stile narrativo che venne pubblicata sul numero 436 (giugno 1997) di Studi Cattolici
Appartenere alla narrativa divina conferiva al Buon Samaritano una prerogativa del tutto peculiare: stare, fuori dal tempo, al balcone di tutti i discorsi e di tutti i pensieri del mondo. Essi gli passavano accanto, vivevano la loro giornata di sole e di fatica, ed alzavano lo sguardo verso di lui aspettandosi un aiuto. Da parte sua, egli non dimenticava di essere protagonista in un genere letterario molto particolare, quello delle fiabe divine, e cercava diligentemente di rendere al meglio il suo personaggio. Ogni mattina il suo compito era quello di alzarsi, di scendere da Gerusalemme verso Gerico, commuoversi dell’uomo derubato e picchiato ed avere compassione di lui: fare, insomma, da buon samaritano (Lc.10,30-37). Perciò anche quel giorno come tutti i giorni per i secoli dei secoli, egli stava scendendo da Gerusalemme a Gerico.
Com’è facile da immaginare conosceva quella strada palmo a palmo. Sapeva che era pericolosa a causa dei briganti ma camminava tranquillo perché il suo ruolo, nella nota parabola, era quello del soccorritore e non della persona soccorsa. Tutto andava liscio, il suo somarello lo seguiva tranquillo e stava per entrare in scena verso occidente il famoso tramonto del deserto. Mentre cominciavano a virare i colori, mentre ad oriente apparivano le prime stelle, mentre cominciava a levarsi il celebre vento del deserto, al Buon Samaritano venne uno strano pensiero. Si strinse un po’ meglio nel suo abito di spessa lana: solo attorno agli occhi rimaneva della pelle scoperta ed in quegli occhi brillò un sorriso. “Lo ammetto: è un’idea molto strana”, pensò. “E se fra duemila anni gli uomini credessero che la cometa di Hale-Bopp fosse solo un fenomeno astronomico ben noto?”. Vicino alla frontiera con la Giordania il sole guadagna rapidamente quota in cielo e così i suoi raggi guadagnano rapidamente calore sulla testa dei viandanti. Purtuttavia il nostro viaggiatore era sicuro che quel pensiero non fosse frutto d’insolazione. Semmai aveva paura di cadere invischiato nei sottili lacci delle superstizione.
Proprio questo stava considerando: che un’idea così pericolosa non potesse nascere che da una superstizione. Quella di credere che il mondo visibile non abbia alcun senso, che la natura e le stelle non siano lì per dirci qualcosa. Stava pensando cioè alla superstizione scientista, quella che segue la scienza come la coda la sua cometa. Bellarmino l’aveva combattuta, e fu la su parte di ragione nel processo a Galileo, in cui aveva torto. Perché la nuova idea che Galileo portava, era che il mondo fosse un meccanismo cieco. “Questa poi!” sussultò fra sé il Samaritano. Come se non fosse vero che la realtà, prima che di algebra e di teoremi è fatta di bellezza. Come se la natura fosse solo un algoritmo, un equilibrio di forze calcolabili; quasi che, oltre quei numeri e quelle algebre, non ci fosse alcun senso. Una superstizione così strana da dover attendere duemila anni per poter essere presa sul serio in tutte le sue conseguenze.
Guardò il deserto attorno a sé: veramente non riusciva a credere che un mondo dalla così abbacinante bellezza potesse diventare un giorno un mondo senza colore e senza messaggi, un paesaggio che non dice niente all’uomo, che cessa di parlare della Gloria di Dio. Difficile credere che ci sarebbe stata un’epoca in cui si fosse convinti che il manto della tigre, le corna del cervo, il rosa della conchiglia e il rosso dell’ibiscus si spiegassero come il prodotto della lotta per la sopravvivenza, con i meccanismi ciechi della macchina mondiale, con la mano invisibile del libero mercato. Che ci sarebbe stato un momento della storia dell’umanità così insolito da non accorgersi più, che i soli viventi “brutti” (con esposti gli organi interni informi e disgustosi) sono i microbi e i pesci di profondità: quelle vite cioè che hanno nel loro destino il non essere visti da occhio alcuno (esclusi, naturalmente, quelli dei personaggi della narrativa divina).
Bruscamente, come suole accadere in medio oriente, era scesa la notte ed in cielo brillavano le stelle. Il Buon Samaritano era stanco. Diede ancora uno sguardo all’orizzonte. La strada girava dietro la montagna e lì dietro c’era la locanda dov’era solito riposare. Per un po’ quella strana idea lo lasciò; per un attimo quello strano pensiero che, sia pur breve quanto un piccolo grappolo di secoli attorno al duemila, sarebbe potuto esistere un mondo così, scomparve.
E al Buon Samaritano, forse perché sentiva vicino la locanda dove era solito trascorrere la notte, venne da canticchiare. Non bisogna pensare a fanciullaggini fiabesche. Semplicemente gli venne da canticchiare in sé stesso, al di dentro. L’idea di aver concluso un giornata di lavoro ben fatta lo rendeva felice. Tutto qua. Il Buon Samaritano viaggiava per lavoro: spezie, tessuti, preziosi. Sapere di aver fatto un buon lavoro, una buona giornata di lavoro, lo rendeva allegro: non era solo il fatto che di lì a poco nella locanda avrebbe riposato. Mi rendo conto di stare ragionando secondo un ordine di pensieri inusuale per noi che siamo i superstiziosi di Hale-Bopp, ma in fin dei conti la trasposizione è semplice: laddove noi avremmo sbuffato, egli cantava. Il Buon Samaritano (come il suo amico albergatore) era un lavoratore che aveva voglia di lavorare. Egli sarebbe stato fortemente sorpreso, quale sarebbe stato il suo disgusto, la sua incredulità, se avesse scoperto che tra noi è considerata una grande vittoria riuscire a lavorare di meno mantenendo lo stesso stipendio. Una simile idea per lui sarebbe stato un attacco frontale, un’offesa a lui stesso, alla sua dignità. Quando dico che camminava contento, che andava a lavorare contento e che perciò terminava la giornata di lavoro canticchiando, intendo soprattutto il buon umore. Generale. Costante. Un clima di buon umore. La sua vittoria, come per l’amico albergatore, era esattamente quella di lavorare bene.
Fu allora che sentì il rantolo della vittima (vv. 10,30.33-34).
“Vai a riposare”. La figura dell’albergatore, tremolante per la candela che teneva in mano, si proiettava sulla parete di fronte a lui. Il Buon Samaritano aveva trascorso quasi tutta la notte con il ferito. Aveva compiuto alla lettera tutto ciò che di loro si diceva nella parabola: olio, vino (cfr. Lc. 10,34). Tutto. Era poi rimasto a vegliare ed ormai era quasi giunta l’alba. Tra pochi minuti sarebbe giunto il momento di Luca 10,35 (“il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”). Però (pensò) era come se l’entrata in scena dell’albergatore fosse avvenuta qualche istante prima. Come un attimo prima.
Non era l’unica cosa insolita: a dir la verità tutta quella nottata gli era sembrata un po’ strana. Non mi riferisco affatto ai gemiti del ferito e al suo agitarsi nell’incubo. Tutto ciò era previsto. Era a partire da quello strano pensiero sulla cometa di Hale-Bopp: era come se fosse cambiato qualcosa. Difficile dire cosa potesse essere dal momento che (è noto) i personaggi delle parabole non hanno nessuna possibilità di cambiarne minimamente il testo. Le parole sono quelle, e quelli sono i gesti. Il Divin Maestro aveva parlato una volta per tutte: in un istante di tempo aveva dato senso al tempo parlando fin dall’eternità per tutta l’eternità. Ed aveva parlato per tutti. Per tutti e per ciascuno.
Forse, a ben pensarci, proprio quello era il punto.
Il dover parlare a quei superstiziosi che vivevano nella strana superstizione del ventesimo secolo rendeva tutto più difficile: era richiesta una diversa tonalità di tempi e di gesti (pur nei tempi e nei gesti previsti). Lì si vedevano i grandi interpreti.
Fu allora quando il Buon Samaritano comprese cosa avesse inteso il suo collega, l’albergatore, con quel leggerissimo anticipo di tempi. Nella parabola infatti si diceva che il passaggio del testimone sarebbe avvenuto il giorno seguente. E fino ad allora, era inteso che ciò avvenisse dopo tutta una notte di veglia da parte del Buon Samaritano. Ma ora l’albergatore aveva voluto che il Buon Samaritano riposasse un po’. Qualche minuto di sonno: il viaggio del giorno dopo sarebbe iniziato semplicemente ad ora un po’ più avanzata con un chiarore fatto un po’ più vivido. Qualche minuto che avrebbe pur sempre consentito di rimanere nella correttezza biblica, e allo stesso tempo avrebbe permesso di offrire all’ amico un’ospitalità. Anche al Buon Samaritano un po’ di ospitalità. Ecco: l’albergatore quando, con il gesto dei tempi e dei modi, senza aggiungere nessuna parola in più, era entrato un po’ prima, era come se gli avesse detto “vai a riposare, perché ora tocca a me. Sono io che entro in scena”. Al Buon Samaritano non rimaneva che convincersi che il suo amico locandiere avesse intuito, grazie ai segreti sottintesi che legano fa loro gli amici, ciò che nelle precedenti ore notturne trascorse in veglia, gli era accaduto.
Aveva inteso cioè che nell’intimo del Buon Samaritano una piccola luce poco a poco si era fatta grande. Passavano davanti ai suoi occhi, in un lampo davanti agli occhi della sua memoria, davanti agli occhi della sua anima, duemila anni di storia (e soprattutto i primi mille seicento). Ed alla fine aveva avuto paura: il Buon Samaritano aveva temuto il profilarsi dell’epoca della superstizione. Per partito preso, per paura cioè di cadere nel partito del millenarismo facilone e torvo dei telepredicatori americani o dei guru del New Age, si sarebbe dovuto privare di significato un bellissimo prodigio che accadeva in cielo esattamente mille giorni prima dello scoccare del duemillesimo anno dell’era cristiana. Ecco il motivo della paura: presentire che in quell’epoca il suo gesto di amore verso il prossimo si sarebbe potuto fraintendere come marginale, come volontariato eccentrico, come amore periferico da vivere in istanti periferici di sottili momenti eccezionali. Ma poi, si sarebbe pensato, sarebbe tornata la vita normale: quella della mano invisibile. Non si sarebbe per nulla dato peso al fatto che il giorno seguente il Buon Samaritano avrebbe ripreso il viaggio, cioè sarebbe tornato al suo lavoro normale. Inoltre non si sarebbe per nulla considerato che il Buon Samaritano pagava per il bene che faceva. Che non gli veniva in mente di farsi aiutare gratis dagli altri. Che addirittura ci perdeva, ci metteva del suo, e che sorprendentemente non chiedeva all’albergatore di lavorare gratis. E allo stesso modo l’albergatore (che si faceva pagare) era ben disposto a fare credito. Avrebbe potuto negarsi, attenersi al suo stretto dovere, non trasformare la sua casa in ospedale (e sé medesimo in medico).
Si converrà che questa è un’idea interessante. È interessante che il Buon Samaritano per comportarsi da buon samaritano abbia avuto bisogno dell’albergatore. E che tutto venisse fatto sulla base di un onesto contratto (una bella stretta di mano), con un onesto credito e debito, un’onesta partita doppia di dare e avere: insomma un’onesta partita doppia di generosità e di laboriosità, di previsione e di imprevisone. Una bella impalcatura di ordine e di avventura. Al Buon Samaritano venne una grande paura che tutto questo, quest’onesta sistole e diastole di normalità e di eccezionalità, in quel lontano ventesimo secolo in cui le grandi cose quali Dio, la religione, l’anima erano troppo oltre quelle piccole (e perciò quelle piccole si trasformavano in misere, in infime, in inutili) (e così quelle grandi divenivano ancora più immense e irraggiungibili) ebbe paura che in quel ventesimo secolo tutto ciò venisse trascurato. Era qualcosa di strettamente connesso con la perdita di senso della bellezza. La paura gli era venuta all’apprezzare un particolare secondario. E cioè che in tutte le tradizioni, a lui -al Buon Samaritano- venivano attribuite le maiuscole (“Buon Samaritano”) e al suo amico le minuscole (“l’albergatore”).
(E veniva sempre trascurato nella titolazione). Gli dispiacque molto. E ora al rappresentare Luca 10,35 (“il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”) si accorgeva che il suo amico stava facendo la cosa migliore.
Ci sono alcuni concetti che hanno nel loro destino quello di procedere in tandem, di andare a coppia. Per questa loro fisiognomica accade che il conoscere il secondo dei due – “l’altro” rispetto a ciò che ci sembra il principale – consenta di apprezzare ulteriormente il primo. Non è qualcosa esclusivo dei concetti relativi: alto e basso, caldo e freddo, luce e buio, destra e sinistra. E’ facile, sol che si rifletta, trovare delle realtà la cui indole non è semplicemente quella di essere “spazialmente” relativi (dove la virgolettatura suggerisce che si sta alludendo ad una spazialità astratta), cioè di illustrarsi reciprocamente: ci si trova di fronte a qualcosa di più profondo, che radica più profondamente nella loro essenza. Mentre infatti la caratteristica dei concetti relativi è lo scomparire di entrambi al venir meno di uno dei due, per quelli cui mi sto riferendo ciò non avviene. Quello che rimane, continua a sussistere anche se -sembrerebbe- ciò avviene con una certa qual diminuzione di splendido. Mentre non esiste alto senza basso, né destra senza sinistra, né buio senza luce, esiste invece per esempio matrimonio senza celibato, anche se entrambi si capiscono meglio al conoscerli entrambi. Esiste necessità senza gratuità, e tuttavia nessuno può pensare che il concetto di dono sia puramente esaurito dalla definizione di “non necessario”; per questo per esempio, il gesto eroico, un gesto gratuitamente nobilmente eroico compiuto per servire gli altri, squilla come maggiormente lungimirante se circondato da comportamenti regolati dalla legge di necessità, dell’utile, dell’indispensabile. Questi ultimi perdono la loro prosaicità; ne guadagnano a loro volta in eroicità.
Era proprio quello che il buon samaritano pensava dell’albergatore. Per tanti secoli (forse con una certa qual diminuzione di splendido) le luci della ribalta erano sempre state puntate su di lui, sul primo. Si era molto disquisito della giurisprudenza dei sadducei (l’halakháh ) che prevedeva tassativamente che al toccare un cadavere, il sacerdote o il levita in questione avrebbero contratto un’impurità legale; si era molto disquisito (altresì) di qual fosse il concetto di prossimo per gli ebrei, di come riguardasse solo gli israeliti poiché gli altri erano goyyîm gentili, pagani. E che dire dei samaritani che erano ancor peggio? Scismatici, apostati, odiati dai giudei. Se n’era molto parlato, se n’era molto predicato.
Ma ci si trovava in epoche (per così dire) normali. Non si soffriva lo strangolamento così caratterizzante l’epoca dell’apparizione di Hale-Bopp. Così scientifico, freddo, rettangolare, regolare, misurato, netto, senza margine, implacabile, diffuso. Saggio, perfino. Verso il quale non c’è nulla da ridire e colui che viene strangolato è evidentemente in torto. All’altezza del ventesimo secolo non sarebbe stato come all’epoca della primitiva rappresentazione: forse fa un po’ male dirlo ma per tanti secoli (fino al 1616 circa) i cristiani sapevano farsi capire, oltre che dai poveri, anche dai ricchi. Era normale. Dipendeva dal fatto che per tanti secoli ci si era trovati in società in cui ciascuno stava al proprio posto in civitas ben ordinate; per ciascuno la vita era una traiettoria ben precisa: sapeva dove sarebbe arrivato e ci arrivava. Infallibilmente. Era a tutti chiaro. Per questo il Divin Maestro aveva dovuto raccontare loro la parabola del Buon Samaritano. Era proprio perché non ci si scordasse, in una tanto ben precisa e ben ordinata società, che esistevano anche i feriti per le strade. Che, d’accordo l’halakháh, ma esistevano anche i feriti per strada, suvvia. Albergatore e buon samaritano, personaggi di una stessa parabola, e personaggi di uno stesso mondo, erano la sintesi degli estremi: e siccome si era in mondi omogenei bisognava sottolineare gli estremi. Ma all’epoca di Hale-Bopp, poiché si era in mondi così divisi, così estremi, sarebbe stato necessario sottolineare le sintesi.
Per tutti i secoli fino ad Hale-Bopp (fino al breve intorno di secoli che avrebbe avuto per centro il passaggio della cometa di Hale-Bopp) saper parlare ai poveri significava saper parlare anche ai ricchi. I cristiani, cioè, avevano un linguaggio anche per i ricchi, per gli uomini di potere, per i sapienti. Non si limitavano ad esortarli all’elemosina (sia pur ben organizzata). Questa era stata la piccola luce che poco per volta, non senza un certo fondamento, si era fatta grande entro il buon samaritano. In quel ventesimo secolo, invece, i cristiani avrebbero avuto sì parole entusiasmanti per gli anziani, i portatori di handicap, i malati di Aids, i giovani tossicodipendenti, gli extracomunitari sbandati, gli zingari e tanti altri “poveri”. Ma sembravano non aver parole per imprenditori, dirigenti, ricercatori, uomini di finanza, tecnologi, scrittori, artisti; per i tanti cioè che, nell’oscuramento -nella povertà – di valori si trovavano impegnati a fare innovazione, competizione, accumulazione, sviluppo, arte e cultura senza saper attribuire significati al loro lavoro: ad agire cioè in maniera insensata.
Ecco perché (concludeva) ho bisogno dell’albergatore. E’ la sua maniera di vivere il rapporto con le cose, cioè è la sua maniera di vivere la virtù della povertà, che mi illumina. E’ la sua maniera di non lavorare gratis ed al contempo di farmi credito che mi serve: mi aiuta, quel suo modo di portare a compimento quello che io ho iniziato. Non so come dirlo: il suo voler essere pagato e allo stesso tempo farmi credito, è così reciproco al mio voler pagare e diventare debitore; il suo essere stabile e sul posto, è così complementare al mio viaggiare. E (infine) quel suo essere disposto alla specializzazione, la sua propensione a trasformare l’albergo in ospedale, ad innovarsi rispetto alla nuova domanda di mercato, è tanto simmetrico al mio non variare i programmi, al proseguire per il mio viaggio, per la mia strada; al mio essere disposto a finanziare l’operazione, prima con contante fresco e poi contraendo con lui un debito.
Quando tornò per accomiatarsi dal ferito, il buon samaritano vide che il letto era stato ben rimboccato, anzi ben rifatto a puntino. Le fasciature erano pulite, con bende fresce non più sporche di sangue rappreso. Il ferito aveva il volto pulito dal sudore, sembrava perfino ben pettinato. Scese ed anche lì, nelle fresche bevande, nel suo giumento ben sistemato, trovò traccia del passaggio dell’albergatore.
Vide, cioè, che la sua compassione per il prossimo non durava solo lo spazio di una notte. Che anche allontanandosi, la compagnia per il suo prossimo sarebbe continuata