AGI – Perché bisogna stare attenti a non confondere i colleghi di lavoro con la famiglia
A volte il calcio suggerisce degli spunti di riflessione utili per la nostra vita quotidiana. Kylian Mbappè, che pare voglia lasciare Parigi per Madrid (sponda Real), rilascia un’intervista all’Equipe in cui dichiara: “Una squadra di calcio non è un gruppo di amici. Non devi cenare con i tuoi compagni di squadra ogni sera per vincere”. L’affermazione colpisce perché la narrazione degli azzuri a proposito del successo negli europei è stato l’esatto opposto: abbiamo vinto perché eravamo amici.
Nella conferenza stampa dopo la vittoria dell’11 luglio per esempio, Bonucci aveva raccontato che “quando stavamo in Sardegna, nonostante fosse un ritiro allargato, preferivamo stare tra noi invece che con le nostre famiglie. Era incredibile. Stavamo con le famiglie eppure ci ritrovavamo sempre tra noi, tutti insieme. Da lì è nato tutto. C’è stato il click”.
Parlare del proprio ambiente di lavoro come di “una famiglia” o di un gruppo di amici è una cosa bella se ci si ricorda di mantenere il senso delle proporzioni. Nell’entusiamo per una serie di vittorie è comprensibile che le iperboli crescano però ha ragione il francese quando dice che la relazione di lavoro è diversa da quella dell’amicizia o, addirittura, da quella della famiglia.
Un conto è dire che per lavorare bene ci vuole collaborazione, senso di appartenenza, correttezza, sincerità, lealtà, chiarezza nei rapporti, condivisione negli obiettivi, così come tanti altri ingredienti, altra cosa è affermare “in questo ufficio siamo tutti amici”. Sul lavoro, propriamente, non vige né la regola dell’amicizia né quella della famiglia perché in queste ultime chi governa è l’amore, la gratuità, la parità di rapporti: tutti ingredienti che non costituiscono l’essenza del lavoro.
Con un collega di ufficio possiamo dire di “essere amici” in senso ampio magari semplicemente perché ci siamo simpatici ma viene il momento nel quale emerge la logica della prestazione e della controprestazione. Il proverbiale “lavoro, guadagno, pago, pretendo”, ovvero il contrario della logica della gratuità, è doveroso nei rapporti di lavoro. Il cliente che va al ristorante è giusto che pretenda di essere servito come si deve: e in quella situazione, dal cuoco al cameriere al proprietario, è doveroso che ciascuno adempia il proprio ruolo. E lì non c’è nessuna gratuità: c’è la logica del diritto e del dovere. Non si lavora per amicizia si lavora per adempiere a dei doveri professionali.
Forse le parole di Mbappè sarebbero fuori luogo se il calcio di cui parlasse fosse quello tra amici, ma non è così: il suo calcio è tra professionisti, ovvero persone che lavorano e devono meritarsi uno stipendio (oltretutto principesco). Non dimentichiamo che la relazione di vera amicizia è rarissima, soprattutto tra adulti, ma fortunatamente non accade lo stesso per il lavoro che viene riconosciuto come un diritto valido per tutti.
È vero che Gesù alla fine della sua vita, nell’Ultima Cena, ha chiamato “amici” i suoi discepoli, ma abbiamo visto quanto gli è costato.