Don Massimiliano Nastasi – XVI domenica del Tempo Ordinario /B
Ger 23, 1-6 ⌘ Sal 22 ⌘ Ef 2, 13-18 ⌘ Mc 6, 30-34
La liturgia di questa domenica presenta i risultati della evangelizzazione che Gesù affida ai Dodici, accompagnata dal desiderio di offrire alla gente «pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una» (Ger 23, 4). Un entusiasmo di «tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato» (Mc 6, 30) che si scontra con la consapevolezza di un gregge di «pecore che non hanno pastore» (Mc 6, 34).
Dopo questa missione in Galilea, iniziata dopo il rifiuto di Nazaret (Mc 6, 1-6), il Maestro propone agli «apostoli» [1] un luogo deserto per riposarsi, perché erano «infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare» (Mc 6, 31). Vuole che «stiano con lui, lo accompagnino e ascoltino; dedica loro particolari attenzioni e insegnamenti; addirittura li coinvolge nell’annuncio del regno di Dio. Non risparmia loro l’esperienza della contraddizione e severi rimproveri: con questi porta i Dodici a dedurre dall’esperienza accumulata la verità suggerita, mai detta finora in modo esplicito» [2].
Nessun luogo però è più adatto che Gesù stesso; infatti: «Cristo è la nostra pace» [3]. Una indicazione meta-geografica che esprime «una tensione fra l’esteriorità e l’interiorità, fra l’accecamento e l’apertura alla rivelazione. Insomma, abbiamo tutta una geografia interiore che manifesta, come la topografia esteriore, i dubbi e le esitazioni di una fede in formazione» [4].
La preoccupazione che Gesù mostra ai suoi discepoli deriva anche dai fatti narrati precedentemente da Marco. Tra l’invio dei Dodici e il loro ritorno, infatti, vi sono due notizie: la fama del Maestro che ormai ha raggiunto Erode: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!» (Mc 6, 16); l’esecuzione stessa del Battista e la sua sepoltura per mano dei suoi seguaci (Mc 6, 17-29). Pertanto, Gesù «chiama i discepoli in disparte anche perché, nel frattempo, era cambiata la sua situazione: morto Giovanni, era diventato lui il “profeta”, il “nuovo Elia”, e l’attenzione dei potenti cadeva ormai su di lui – un’attenzione minacciosa. Chiamando i suoi in disparte, Gesù voleva rafforzarli in vista delle prove ormai inevitabili» [5]. Giunti lì con la barca, però, si ritrovano una grande folla accorsa a piedi da tutte le città limitrofe. A tale vista Gesù ne prova compassione e riprende ad insegnare loro molte cose fino a giungere al prodigio dei pani e dei pesci (Mc 6, 35-44).
L’evangelista nel descrivere il sentimento del Signore alla vista della folla utilizza il termine «ἐσπλαγχνίσθη» (Mc 6, 34) che indica un movimento interiore delle viscere; una compassione profonda e viscerale. L’ebraico ha come sostantivo «rehem», al plurale «rahamîm», che indica l’utero materno come sede simbolica della misericordia e che viene trasformata in una metafora emozionale applicata a Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49, 15); così come la generatività paterna: «Come è tenero [rhm] un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103, 13). Una misericordia che nasce dalle viscere per diventare amore oblativo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15, 13); un gesto che una madre o un padre sono pronti a compiere per salvare il loro figlio, superando la legge natura dell’amor proprio: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12, 31).
Il Maestro, perciò, si commuove nel vedere il suo gregge assetato dalle parole del buon pastore, ma tuttavia «Gesù non è puramente e semplicemente la grande indole caritatevole del cuore largo e dalla ricca forza soccorritrice, che si dedica a seguire la sofferenza umana, la comprende e la superi. Non è colui che abbia sensibilità sociale, che vede gli abusi e i disordini e voglia meglio ordinare le cose; che si ribelli alle differenze sociali e lotti per la giustizia. […] Il guarire di Gesù è un fare che muove da Dio: un rivelare Dio e un indirizzare a lui» [6].
Marco, attraverso rapide annotazioni ricche di reminiscenze bibliche, presenta il Maestro che si sofferma con la folla in un’ora tarda e in un luogo deserto, immagini che ricordano «le condizioni nelle quali il popolo d’Israele si è trovato in precedenza nel deserto durante l’esodo, tormentato dalla fame (Es 16, 3s). Per la folla che ha seguito Gesù, lontano dai villaggi e dalle case coloniche, la situazione è analoga» [7]. Un’eco del passato alla figura di Mosè, il primo grande pastore d’Israele, di fronte a «pecore che non hanno pastore» (Mc 6, 34). Da questa affermazione, infatti, «spira una calda compassione umana […]; quasi in un malinconico soliloquio, emana uno struggimento accorato: comprendiamo più intimamente perché sia avvenuta l’Incarnazione» [8].
Nella sua storia vocazionale, Israele ha conosciuto pastori che come Davide e Giosia – «Fece ciò che è retto agli occhi del Signore, seguendo le vie di Davide, suo padre, senza deviare né a destra né a sinistra» (2 Cr 34, 2) – che hanno accolto la parola dei profeti, ma più delle volte si è scontrato con cattivi pastori che hanno solo disperso il gregge a loro affidato, fino a condurlo con l’ultimo re di Gerusalemme, Sedecia, nel 597 a.C. in esilio a Babilonia: «Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio» (2 Cr 36, 16).
Il cuore di ‘Ădhünāy per il suo popolo è più forte delle sue mancanze, così promette di radunare lui stesso il resto delle sue pecore costituendo su di esse un pastore, quando ormai la casa reale si era persa nell’esilio: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra» (Ger 23, 5) [9]. Di fronte alla perdita della speranza, è promesso un messianismo come «pieno compimento della sacra regalità come mezzo scelto da Jahvéh stesso per realizzare le benedizioni dell’alleanza: la pace e la giustizia del suo popolo nella terra promessa» [10].
Nel suo insegnare alla folla l’evangelista presenta Gesù come «il “vero pastore” annunciato dai profeti. Egli, il messia, viene a radunare il nuovo popolo di Dio: con la sua parola e il nutrimento che prodiga, egli è in grado di saziare tutta la fame degli uomini» [11]. Pertanto, è «il Mosè definitivo e più grande – il “profeta” che Mosè aveva annunciato nel suo discorso alle porte della Terra Santa e di cui Dio aveva detto: “Gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò (Dt 18, 18)» [12].
«In questa verga di Aronne, che produsse il fiore senza umore, alcuni vedono la vergine Maria, che senza unione diede alla luce il Verbo di Dio e sulla quale sta scritto: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse e un fiore salirà dalla sua radice” (Is 11, 1), cioè Cristo, che, recando la figura della futura passione, con la candida luce della fede e con il sangue della passione rosseggiava quale fiore dei vergini, corona dei martiri e grazia dei continenti» [13].
[1] «Al v. 30, per la prima e unica volta, Marco denomina i Dodici col termine “apostoli”, titolo che diverrà loro proprio solo a partire con l’incontro con il Risorto. È un richiamo evidente alla loro identità postpasquale. È chiaro dunque che l’evangelista vede prefigurata in questo evento la missione della chiesa al mondo»: C. Ostinelli, «Verso Cesarea: la svolta decisiva (Mc 6, 6b – 8, 30): La missione dei Dodici», in R. Pellegrini (a cura di), Il Vangelo di Marco, Edizioni Messaggero Padova – Associazione Biblica Italiana, Padova 2008, 98.
[2] F. Mosetto, «I discepoli di Gesù nel Vangelo di Marco», in M. Làconi e Coll. (a cura di), Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Elledici, Torino 20022, 552.
[3] Origene, Exp. Ep. ad Rom, IV, 12, in F. Cocchini (a cura di), Commento alla Lettera ai Romani, Città Nuova, Roma 2014, 221.
[4] J. Radermakers, Il Vangelo di Gesù secondo Marco, EDB, Bologna 1975, 197-198.
[5] T. Verdon, La bellezza nella Parola. L’arte a commento delle letture festive, Anno B, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 241-242.
[6] R. Guardini, Il Signore, Morcelliana, Brescia 2005, 79-80.
[7] J. Hervieux, Vangelo di Marco, San Paolo, Cinisello Balsamo 20033, 121.
[8] F. Trisoglio, Il Vangelo di Marco alla luce dei Padri della Chiesa, Città Nuova, Roma 2006, 129.
[9] «La parola profetica svela il volto della realtà e la menzogna di un’interpretazione superficiale e comoda della storia (23, 9-40). La vita di Geremia si svolge in perenne contrasto con i suoi ascoltatori, soprattutto con alcuni settori di Giuda che vogliono eliminare il profeta (11, 18-23; 18, 18; 26; 38)»: A. Spreafico, La voce di Dio. Per capire i Profeti, EDB, Bologna 2003, 174.
[10] G. P. Couturier, «Geremia», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 413.
[11] J. Hervieux, Vangelo di Marco, San Paolo, Cinisello Balsamo 20033, 123.
[12] J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 307.
[13] Isidoro di Siviglia, Esposizioni dei sacramenti mistici o questioni sull’Antico Testamento – Sui Numeri, 15, 18: PL 83, 348.
Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)