Don Massimiliano Nastasi – V Domenica di Pasqua/ B

At 9, 26-31    Sal 21    1 Gv 3, 18-24    Gv 15, 1-8

La quinta domenica di Pasqua, dopo la presentazione di Gesù come «il buon pastore [che] dà la propria vita per le pecore» (Gv 10, 11), offre la similitudine della vite e dei tralci che, insieme al successivo comandamento dell’amore, rappresentano i testi di riferimento cui si basa l’unità della comunità cristiana e la stessa testimonianza del Messia: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).

La pericope della vera vite è inserita nel corpo dell’ultimo discorso di Gesù al Cenacolo (Gv 13, 31 – 17, 26) [1], dove egli parla ai suoi discepoli contemplando la sua dipartita come «sospeso fra cielo e terra e già nell’ascesa alla gloria, […] come ancora nel mondo e, contemporaneamente, come non più in esso» [2], ponendo il discorso in un carattere atemporale e non spaziale così dà ottenere un valore permanente valido in ogni tempo: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17, 20).  Una composizione unica che trova una sua analogia nei sinottici con il discorso della montagna (Mt 5-7) o alla collezione lucana delle parole del Maestro pronunciate sulla via dalla Galilea a Gerusalemme (Lc 9, 51 – 19, 27).

L’affermazione del Maestro: «Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15, 5) è strettamente collegata al «Padre mio è l’agricoltore» (Gv 15, 1), concetto analogo espresso da Paolo: «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio» (1 Cor 3, 9). Infatti, quale che possa essere la similitudine utilizzata da Giovanni per esprimere l’opera salvifica di Gesù, egli è sempre caratterizzato come strumento del Padre, come nella similitudine del buon pastore: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre» (Gv 10, 29).

La vite richiama poi all’immagine veterotestamentaria d’Israele come la vigna di ‘Ădhünāy, coltivata con tutte le cure e attenzioni necessarie perché potessero crescere i frutti migliori, ma che in cambio produce solo frutti amari: «Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi» (Is 5, 2; cfr. Ger 2, 21; Ez 15; Sal 80, 9-16). Grazie al Figlio di Dio, che è «la vite vera» (Gv 15, 1), i cristiani uniti a lui portano prodotti maturi graditi a Dio: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto» (Gv 15, 5) [3]. Non più, pertanto, una vite come proprietà dell’agricoltore, ma come parte stessa di esso [4].  

La descrizione giovannea conduce, dunque, ad una unità non solo formale o, come nella raffigurazione del corpo di Cristo (1 Cor 12, 12-31) invocata da Paolo per regolare le reciproche relazioni tra i credenti, ma ad una inabitazione ontologica nel Logos: «siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa» (Gv 17, 22). Benché in maniera misteriosa, infatti, Gesù resta identico a tutti coloro che lo seguono, e nella metafora della vite e dei tralci egli non si identifica nella testa del corpo mistico (come in Col ed Ef), né in un organo particolare rispetto ai discepoli, ma sono tutti i discepoli insieme che lo costituiscono, fino a riconoscersi nei cristiani che subiscono la tribolazione – «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti» (At 9, 4) –, dando così significato all’espressione di «Figlio dell’uomo» (Dn 7, 13) che metaforicamente designa l’intero popolo dei santi dell’Altissimo, divenendo uno.

Comunque sia, il concetto paolino del corpo mistico per rappresentare l’unità di Cristo con i suoi discepoli è molto più sviluppato; «benché il vangelo di Giovanni sia stato pubblicato molto più tardi rispetto alle lettere paoline, Giovanni si mantiene fedele al periodo storico nel quale è ambientato il suo vangelo e non sviluppa pertanto l’immagine al di là dell’applicazione intesa da Gesù» [5]. Infatti, la tradizione giovannea presenta il passato appunto come passato, in maniera che, alla luce pasquale, appare come il tempo dell’incomprensione, il tempo in cui «non vi era ancora lo Spirito» (Gv 7, 39) per comprendere a pieno la simbologia che Gesù presentava di se stesso e della comunità dei credenti. Tuttavia, «il passato non può essere ridotto così al semplice fatto di aver avuto luogo: il suo significato lo trascende da ogni parte e se i contemporanei di Gesù non poterono comprenderlo in tutta la sua pienezza, esso appare chiaramente al credente che vive nel presente della Chiesa: per lui il passato, nella sua oggettività storica, rimane come una domanda che gli è rivolta» [6]

Giovanni, pertanto, nella rappresentazione della vite e dei tralci, come quella del buon pastore e delle pecore (Gv 10, 11-18), riportando dal passato le parole del Signore, intende marcare nell’oggi della Chiesa la necessità di essere uniti al Risorto, non solo come rapporto esterna, ma entrando nella sua realtà divina attraverso il battesimo, per ricevere in dono la vita beata: «Perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17, 13); viceversa chi non è incorporato al Cristo, «viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (Gv 15, 6). Infatti, «tutte queste formulazioni (io, vite, corpo, Figlio dell’uomo) inducono chiaramente a pensare, a partire dal loro contenuto, che possa esserci soltanto un’unica chiesa di Gesù. Dal punto di vista teologico, è totalmente da escludere la possibilità di parlare di una pluralità di chiese» [7].

Una unità voluta da Gesù [8] ma resa fragile e frammentata da dissidi e interpretazioni non autentiche delle parole del Messia che si andavano diffondendo nelle varie comunità cristiane, ma che trova la sua forza in quel: «Rimanete in me» (Gv 15, 4), che significa “perseverantia”, ossia il resistere con pazienza nella comunione con il Signore attraverso le vicissitudini della vita e le persecuzioni: «Il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17, 14). Infatti, «il frutto e l’amore vanno insieme: il vero frutto è l’amore che ha attraversato la croce e le purificazioni di Dio» [9], che si rende possibile nel restare in Cristo e diventare Cristo attraverso Cristo che si dona son il suo corpo e il suo sangue nello Spirito.

 

«Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l’avremo. […] Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18)» [10].

 

[1] Tra i problemi ricorrenti nella ricerca giovannea è stata e continua ad essere l’attuale struttura e composizione del discorso di addio di Gesù. Al giorno d’oggi quasi nessun esegeta direbbe che questi capitoli costituiscano un’unità letteraria nella forma attuale. L’obiezione più convincente contro una tale posizione risiede nella dichiarazione chiaramente conclusiva di 14, 31: «Alzatevi, andiamo via di qui». Tuttavia, è proprio a questo punto che Gesù si lancia inaspettatamente in un discorso fortemente unitario. Tra gli approfondimenti relativi a tale problematica: cfr., F. Segovia, «The Theology and provenance of Jhon 15:1-17», in JBL 101 (1982) 115-128.

[2] R. E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, G. Boscolo (a cura di), Queriniana, Brescia 2001, 482.

[3] Sono cinque le parabole evangeliche che hanno come contenuto la vigna e la coltivazione dell’uva: «il fico sterile» piantato nella vigna (Lc 13, 6-9); «gli operai mandati nella vigna» (Mt 20, 1-16); «il vino nuovo negli otri vecchi» (Mt 9, 17); «i due figli» (Mt 21, 28-32) ed infine «i vignaioli omicidi» (Mt 21, 33-41; Mc 12, 1-11; Lc 20, 9-18).

[4] Tenendo conto del fatto che questa pericope della vite e dei tralci è inserita nell’ultima cena, ci potrebbe anche essere un’allusione eucaristica. Il Quarto Vangelo, infatti, non riporta le parole pronunciate da Gesù sul pane e sul vino, presenti nei sinottici (Mc 14, 22-25; Mt 26, 26-29; Lc 22, 17-20); cfr. «frutto della vite» in Mc 14, 25 e «la santa vite di David tuo servo» nella liturgia della Didaché 9, 2, in U. Mattioli (a cura di), Paoline, Roma 19844, 116.

[5] B. Vawter, «Il Vangelo secondo Giovanni», in Grande commentario biblico, A. Bonora – R. Cavedo – F. Maistrello (ed. it. a cura di), Queriniana, Brescia 1973, 1421.

[6] JX. Léon-Deufour, I vangeli e la storia della Chiesa, Paoline, Milano 1968, 165.

[7] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli Apostoli, Queriniana, Brescia 2014, 509.

[8] Cfr. D. Marzotto, L’unità degli uomini nel Vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia 1977.

[9] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 305.

[10] Agostino, In Io. Ep. tr., 81, 4, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXIV/2 («Commento al Vangelo di S. Giovanni», tr. it. di E. Gandolfo – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 19852, 995.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)