Don Massimiliano Nastasi – Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Ez 34, 11-12.15-17    Sal 22    1 Cor 15, 20-26.28    Mt 25, 31-46

La liturgia di questa domenica, che coincide con la solennità di Gesù Cristo Re dell’Universo, conclude il ciclo dedicato alla lettura semicontinua del vangelo di Matteo, e propone la terza ed ultima parabola del Maestro inserita nel quinto grande discorso detto escatologico (Mt 24, 1 – 25, 46) [1], ossia riferito al ritorno del Signore risorto come giudice e pastore della storia dell’umanità.

Un discorso, quello escatologico, che è di conclusione ai cinque grandi sermoni di Gesù che caratterizzano la struttura stessa del vangelo [2], e che completa una tematica che attraversa e racchiude l’intero insegnamento di Cristo: «il “regno dei cieli” annunciato da Gesù (cfr. 4, 23; 5, 3ss) è presente nel mondo (c. 13), particolarmente nella comunità dei discepoli (c. 18); esso suscita ed esige una nuova “giustizia” (c. 10). Ma il suo compimento è riservato alla fine dei tempi. Alla vigilia della passione, dopo un ultimo drammatico scontro con i suoi nemici (c. 23), Gesù annuncia profeticamente le grandi crisi della storia, culminanti nella parusìa (c. 24), e ancora una volta istruisce i discepoli circa le esigenze spirituali e pratiche che ne derivano (c. 25)» [3].

A conclusione dell’allocuzione riguardante gli ultimi tempi, dove è presentata anche la scena relativa alla caduta di Gerusalemme del 70 d.C. da parte di Tito [4], figlio dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano – «Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta» (Mt 24, 38) –, Gesù presenta una sequenza di tre parabole che hanno come tema la previdenza nell’ora dell’attesa (Mt 25, 1-13); il tesoro della Chiesa amministrato dalla comunità fino al giorno del ritorno del padrone (Mt 25, 14-30); il giudizio finale che vede il Signore risorto giudice della storia (Mt 25, 31-46).

Quest’ultima parabola, propria di Matteo – risultato redazionale di ampliamenti ecclesiali operati su detti di Gesù – senza nessun riferimento alla fonte Q o al vangelo di Marco che, invece, propone la venuta del Figlio dell’uomo sulle nubi e l’invio dei suoi angeli per radunare «i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo» (Mc 13, 27), presenta l’immagine del Figlio dell’uomo intronizzato giudice e pastore sulle pecore e sui capri. Infatti, il Figlio dell’uomo parlando di Dio come «mio Padre» (Mt 25, 34), si proietta al Figlio di Dio nel contesto apocalittico del giudizio del mondo intero e «l’ammirevole principio che il verdetto è basato sul trattamento riservato agli emarginati è l’ultimo avvertimento del Gesù di Matteo ai suoi seguaci ed alla chiesa, con la richiesta di uno stile religioso molto differente sia da quello degli scribi e farisei criticati nel cap. 23, sia da quello di un mondo che presta maggiore attenzione ai ricchi e ai potenti» [5].

La scena parabolica, cui sfondo si trova l’affermazione del nucleo centrale dell’insegnamento morale di Gesù, è la parusìa, e «tutti i popoli» (Mt 25, 32) significano l’intero genere umano. Poi il fatto che qui non sia menzionata la fede come criterio di giudizio non deve indurre a trarre conclusioni teologiche. È chiaro che in Matteo, come negli altri scrittori neotestamentari, la fede è il primo e fondamentale rapporto dell’uomo con Dio [6]. Infatti, «il concetto base di questa scena è che la fede non costituisce il rapporto totale; essa deve portare alla trasformazione del discepolo» [7], pensiero, questo, che svilupperà successivamente l’epistola di Giacomo: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» (Gc 2, 18).

Il Signore nel giudizio – che «non è un effetto dell’eterno dominio di Dio, ma un atto del suo operare terreno. È l’ultimo dei suoi atti, l’ultimo, del quale ci è detto che dopo di esso verrà l’eternità. Allora non sarà più un agire, ma puro essere ed eterna pienezza» [8] – riceve dal Padre il titolo di «Re» (Mt 25, 34), oltre che giudice e pastore, insolito nei vangeli e segno dell’ampliamento ecclesiale della riflessione su Gesù, e con esso anche il «regno». Esso però non è il regno oggetto diretto della proclamazione del Maestro – che in Matteo è piuttosto la signoria di Dio [9] –, ma il regno escatologico preparato «fin dalla creazione del mondo», nozione già presente nella teologia rabbinica ove si afferma che il regno del Messia è una realtà creata prima del mondo.

Nel giudicare l’umanità il Risorto si identifica con le categorie più disagiate già in parte presentate nel primo grande discorso programmatico (Mt 5, 3-12: le beatitudini), come gli affamati e gli assetati, i forestieri e gli ignudi, i malati e i carcerati, qualificando il comportamento nei loro confronti come un comportamento nei suoi confronti. Nella sua incarnazione, difatti, «Egli ha compiuto questa identificazione fin dall’estrema concretezza. Egli è Colui che è privo di proprietà e di domicilio, che non ha dove posare il capo (cfr. Mt 8, 19; Lc 9, 58). È il prigioniero, l’imputato, e muore nudo sulla croce. L’identificazione del Figlio dell’uomo che giudica il mondo con i sofferenti di ogni tipo presuppone l’identità del giudice con il Gesù terreno e mostra l’unità interna di croce e gloria, di esistenza terrena nella bassezza e futura potestà di giudicare il mondo» [10].

Certamente, l’unico vantaggio che i discepoli di Gesù hanno in questa situazione rispetto a chi non ha conosciuto e confessato il Figlio di Dio è la consapevolezza del criterio del giudizio universale. «Il giudice stesso ha rivelato ai discepoli il codice segreto del giudizio universale: donne e uomini da ogni nazione e di ogni confessione possono entrare nel regno celeste per la sentenza del giudice, se hanno usato misericordia. Due restrizioni però ci sono: primo non possono giungere “al cielo” senza Gesù, poiché nessun altro è il Figlio dell’uomo e il giudice. Secondo, Gesù nulla dice sulla fondatezza delle altre religioni come vie di salvezza» [11]. Infatti, secondo la concezione biblica non esiste una via di salvezza al di fuori di Dio né al di fuori di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14, 6).

In questa ultima parabola che precede la narrazione della passione, morte e resurrezione del Messia, in sintesi, «con virtuosità narrativa ed efficacia pedagogica, ricollegando magistralmente l’ultimo al primo dei “discorsi” di Gesù (“inclusione”), Matteo addita il compimento di quel “regno dei cieli” che è al centro del suo Vangelo e indica nella “giustizia”, ispirata alla fede (“l’avete fatto a me”) e sorretta dall’amore, la via che ogni discepolo di Cristo è chiamato a percorrere per entrare nel regno» [12].

«Venite con i doni: “donate elemosine e tutto è purificato per voi” (Lc 11, 41). Venite con doni a colui che dice: “Voglio misericordia più che sacrificio” (Os 6, 6; Mt 9, 13). A quel tempo che era l’ombra del futuro, si veniva con tori e arieti e caproni, con qualsiasi animale adatto al sacrificio, in modo che con quel sangue si compiva una cosa e se ne significava un’altra. Ma ormai quel sangue, che tute quelle cose raffiguravano, è venuto; è venuto il re stesso e vuole i doni. Quali doni? Le elemosine. Perché egli stesso giudicherà e imputerà a ciascuno i doni. “Venite, benedetti del Padre mio”, dice, “ricevete il regno che è preparato per voi fin dall’inizio del mondo”. Perché “Ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi avete vestito; forestiero e mi avete accolto; malato, in carcere e mi avete visitato”. Questi sono i doni con i quali le figlie di Tiro adorano il re; perché allorché gli dicono: “Quando ti abbiamo visto?”, egli che è in alto e in basso, per coloro che ascendono e discendono, risponde: “Quando lo avete fatto a uno di questi miei più piccoli, lo avete fatto a me”» [13].

[1] Cfr. F.W. Burnett, The Testament of Jesus-Sophia. A Redaction-Critical study of the Eschatological Discourse in Matthew, University of America, Washington, DC 1981.

[2] I cinque discorsi di Matteo sono: discorso programmatico o della montagna (cc. 5-7); di missione (c. 10); in parabole sul regno di Dio (c. 13); ecclesiale o della comunità cristiana (c. 18); escatologico (cc. 24-25). Cfr. M. Làconi, «I discorsi di Gesù nel Vangelo di Matteo», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 217-227.

[3] F. Mosetto, «Il discorso escatologico (Mc 13)», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 425.

[4] «S’eran verificati dei prodigi; prodigi che quel popolo, schiavo della superstizione ma avverso alle pratiche religiose, non ha il potere di scongiurare, con sacrifici e preghiere. Si videro in cielo scontri di eserciti e sfolgorio di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. S’aprirono di colpo le porte del santuario e fu udita una voce sovrumana annunciare: «Gli dèi se ne vanno!» e intanto s’avvertì un gran movimento, come di esseri che partono. Ma pochi ricavavano motivi di paura; valeva per i più la convinzione profonda di quanto contenuto negli antichi scritti dei sacerdoti, che proprio in quel tempo l’Oriente avrebbe mostrato la sua forza e uomini venuti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del mondo. Questa oscura profezia annunciava Vespasiano e Tito, ma il volgo, come sempre sollecitato dalla propria attesa, incapace di fare i conti con la realtà anche nei momenti più difficili, interpretava a suo favore un destino così glorioso. La massa degli assediati, d’ogni età e dei due sessi, maschi e femmine, ascendeva, come ci hanno confermato, a seicentomila. Chiunque poteva imbracciare armi; e ad affrontare i rischi eran pronti più di quanto il numero comportasse. Eguale determinazione vivevano uomini e donne e, nella prospettiva d’esser costretti a mutar sede, la vita li spaventava più della morte. Contro questa città e questa gente, poiché la posizione non consentiva un assalto o improvvisi colpi di mano, Cesare Tito decise di combattere impiegando terrapieni e tettoie. Ripartisce i compiti fra le legioni e gli scontri furono sospesi, finché non vennero affrontati con tutti i mezzi escogitati dagli antichi e dai moderni, per espugnare la città»: Tacito, Hist., 5, 13, F. Nenci (a cura di), Le storie, Mondadori, Milano 2014, 110.

A seguito della vittoria romana la città e il suo tempio furono distrutti; la distruzione del principale tempio ebraico è ricordata ancora oggi nell’annuale festa di lutto ebraica della תשעה באב o ט׳ באב (Tisha BeAv) tra il 14 e il 15 luglio, mentre l’arco di Tito, eretto per celebrare il trionfo del generale romano, si trova tutt’oggi a Roma.

[5] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 287-288.

[6] Per il teologo evangelico tedesco Rudolf Bultmann (1884-1976) sostanzialmente la fede per Gesù è «la forza di prendere sul serio, in determinati momenti della vita, la persuasione dell’onnipotenza di Dio, la certezza che in questi determinati momenti si sperimenta realmente l’azione di Dio, la convinzione che il Dio lontano è effettivamente il Dio vicino, purché l’uomo voglia abbandonare il suo abituale atteggiamento e sia realmente pronto a guardare il Dio vicino. Nel senso di Gesù si può dunque credere alla sola condizione di essere obbedienti, e così è pure escluso ogni sconsiderato fraintendimento della fede in Dio»: R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 20177, 161.

[7] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 959.

[8] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 448.

[9] “Signoria di Dio” indica la presenza di Dio operante nel mondo resa visibile dai miracoli di Gesù. Pertanto, il Messia opera non per il beneficio della persona che riceve l’evento miracoloso, ma affinché quello stesso beneficio sia segno visibile di questa presenza nel mondo. Cfr. R. Schnackunburg, Signoria e Regno di Dio, EDB, Bologna 1990; H. Merklein, La signoria di Dio nell’annuncio di Gesù, Paideia, Brescia 1994.

[10] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 377.

[11] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli apostoli, Queriniana, Brescia 2014, 143.

[12] F. Mosetto, «Il discorso escatologico (Mc 13)», cit., 426.

[13] Agostino, Enarr. in Ps., 44, 27 in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXV («Esposizione sui Salmi [1-50]», tr. it. di R. Minuti), NBA – Città Nuova, Roma 19822, 875.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)