Don Massimiliano Nastasi – XXXII Domenica del Tempo Ordinario /A
Sap 6, 12-16 ⌘ Sal 62 ⌘ 1 Ts 4, 13-18 ⌘ Mt 25, 1-13
La liturgia di questa domenica, riprendendo la lettura semicontinua del vangelo di Matteo interrotta dalla celebrazione della solennità di tutti i santi, propone la prima delle ultime tre parabole di Gesù, che anticipano la sua morte e resurrezione, inserita nel quinto grande discorso matteano riguardante la caduta di Gerusalemme e gli ultimi tempi (Mt 24, 1 – 25, 46).
In particolare, sulla distruzione della città santa, l’evangelista più che rilanciare una profezia di Gesù, ricorda in questo discorso l’evento che era stato posto in atto nel 70 d.C. da Tito Flavio Vespasiano. Ciò, ovviamente, «non significa affermare che Gesù non lo predisse; ma proprio perché anch’esse oggetto di ricordo queste sue parole non furono ricordate con maggior esattezza di quanto lo siano stati altri suoi detti, né si può dire che l’impatto storico dell’evento debba necessariamente averne facilitato la conservazione accurata» [1].
Il Maestro, pertanto, inserito nel discorso escatologico di Matteo, dopo le tre provocazioni dei farisei ed erodiani sul tributo all’imperatore di Roma (Mt 22, 16-21), dei sadducei sull’esistenza della resurrezione (Mt 22, 23-32) e del dottore della Legge sul grande comandamento (Mt 22, 35-40), nel tempio si rivolge alla folla e ai suoi discepoli rimproverando gli scribi e i farisei, che seduti sulla cattedra di Mosè, «legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23, 4). Tutto ciò solo per essere ammirati dalla gente e sentirsi chiamati maestri e rabbì, quando «uno solo è il vostro Maestro» (Mt 23, 8) come «uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23, 9).
Questo duro richiamo all’atteggiamento incoerente di coloro che vivono nella lettura e nell’insegnamento della Tôrâ, si pone a cornice dell’ultima questione di Gesù sull’attesa sul suo ritorno glorioso. Matteo, infatti, «ha preparato la strada per un lungo discorso sugli ultimi tempi, che è, giustamente, l’ultimo dei cinque grandi discorsi» [2], che si conclude con la scena grandiosa del giudizio che richiama come «l’attesa escatologica trova tutta la sua autenticità nell’impegno attivo della fraternità: Mt 25, 14-29» [3]. Tale attesa è menzionata, poi, in maniera accurata nella prima delle ultime tre parabole di Gesù a conclusione del richiamo sugli ultimi tempi della Chiesa.
La parabola delle dieci fanciulle «che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo» (Mt 25, 1), rappresenta l’intera comunità cristiana composta da cinque giovani stolte e cinque saggie che possiedono l’olio che alimenta le loro stesse lampade. L’attesa dello sposo le fa tutte addormentare, ma al grido nella notte: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!» (Mt 25, 6), le stolte si svegliano ma senza più l’olio, a differenza delle saggie che possono accompagnare lo sposo con le lucerne accese e così entrare alle nozze.
Certamente, ad una attenta lettura risulta come «la morale della parabola è la previdenza più che la vigilanza in senso stretto; tutte le ragazze dormono, cinque di esse sono preparate» [4]. Anche per il fatto che sul richiamo alla vigilanza precedentemente già si fa riferimento nella menzione del diluvio universale: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (Mt 24, 37); concludendo con l’esortazione: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (Mt 24, 42). Così come la parabola dell’arrivo a sorpresa del padrone di casa che trova il servo malvagio che agisce contro l’incarico che gli è stato affidato, che «mostra che i cristiani infedeli (e forse specificamente i capi della chiesa) saranno giudicati non meno rigorosamente degli scribi e dei farisei» [5]. Una vigilanza comunque che non va intesa come un «uscire dal presente, uno speculare sul futuro, un dimenticare il compito attuale – tutt’al contrario, vigilanza significa fare qui e ora la cosa giusta, come si dovrebbe compierla sotto gli occhi di Dio» [6].
Sia l’attesa del ritorno del Signore sia la previdenza in questa attesa, pertanto, sono gli elementi fondamentali dell’ultimo discorso di Matteo, che trovano una corrispondenza in Rm 13, 11-14 con la condivisione delle parole: “notte” e “giorno”, l’“ora”, alzarsi dal sonno o restare svegli. Il “giorno”, infatti, è il giorno del Signore, l’ora della «παρουσία» (parusia), il ritorno di Gesù il Cristo; differentemente dalla “notte” che sta per il mondo e il tempo presente. Al centro di entrambi i testi, poi, vi è il “vegliare”, o alzarsi anzitempo dal sonno; «entrambe le cose significano lo stesso: le due immagini hanno la loro origine nel servizio del Tempio di Gerusalemme, a lode a Dio, al mattino. Chi veglia infatti per vivere l’inizio del giorno, desidera veramente salutare e lodare Dio alla luce del nuovo giorno» [7].
L’olio delle dieci fanciulle presente nella parabola, pertanto, non consiste in un cieco attivismo, come se il fare abbia la precedenza sull’essere; dormono infatti entrambi i gruppi di donne. Si tratta, invece, di riserve che devono durare per la vita. Ancor meglio, l’olio di cui si necessita di far scorta è la metafora stessa della parabola. Difatti, «la parabola dell’olio sarebbe dunque anzitutto una parabola sulle parabole, come è il caso degli scribi secondo Mt 13, l’antico e il nuovo tirato fuori dal proprio tesoro, come per il seminatore di Mc 4» [8].
Il mantenere la gioia dell’annuncio del Vangelo (l’olio della lucerna) in un’attesa escatologica è il problema che sta più a cuore a Matteo, un «giudeo cristiano della diaspora, che scrive per una Chiesa impegnata in un confronto serrato con l’ebraismo rinato negli ultimi decenni del secolo» [9], come anche a Paolo che in 2 Ts 2, 1-4 mette in guardia i fedeli di fronte all’allarmismo di chi afferma come la venuta del Signore sia imminente. Proprio l’attesa senza una precisa scadenza, accompagnata dall’acuirsi delle persecuzioni, provoca un rilassamento da parte della communita matteana (il dormire delle fanciulle), ma in molti anche l’abbandono a questa speranza (la perdita dell’olio) per un ritorno alle antiche tradizioni giudaiche.
Da qui l’insistenza dell’evangelista nel tenere da parte la costanza per accendere a tempo dovuto la fede nel ricevere lo sposo che viene. Egli, infatti, verrà improvvisamente; come il ladro nella notte; come il padrone del viaggio; come lo sposo dalle nozze. Il giudizio viene essenzialmente all’improvviso perché non ha alcun indizio premonitore nel corso del mondo stesso. Così come il ritorno di Gesù che è «l’ultimo atto di Dio e si pone di traverso rispetto a ogni elemento umano e interno al mondo. Dio guarda perennemente al mondo. Perennemente incombe la minaccia del suo venire. Quando accadrà, lo sa solo lui, poiché egli sa quando è piena la misura» [10].
La comunità dei credenti, mantenendo la gioia della salvezza come olio della lampada, e mettendo in pratica il Vangelo, è chiamata così ad attendere con fiducia il ritorno del Signore, come scrive Girolamo di Stridone:
«“Nel mezzo della notte si levò un grido: Ecco lo sposo! Andategli incontro” (Mt 25, 6). D’improvviso, nell’oscurità della notte, mentre tutti sono tranquilli e pesantissimo è il sonno, l’avvento di Cristo sarà annunciato dal grido degli angeli e dalle trombe delle Potestà celesti che lo precedono. Aggiungiamo qualcosa che può forse tornare utile al lettore. È tradizione dei giudei che Cristo venga di notte, a somiglianza dei tempi d’Egitto quando, celebrata la Pasqua, venne l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le tende, e gli stipiti delle porte furono consacrati col sangue dell’agnello (Es 12, 3-23). Da ciò credo nasca la tradizione apostolica secondo cui nel giorno della vigilia della Pasqua non si congeda il popolo prima della mezzanotte, appunto perché si attende la venuta di Cristo. E quando tale ora è passata, certi che non venga più, tutti si dedicano a solennizzare la festa. È per questo che anche il salmista dice: “A mezzanotte mi leverò per celebrare i tuoi giusti decreti “(Sal 119, 62)» [11].
[1] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 955.
[2] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 286.
[3] M. Làconi, «I discorsi di Gesù nel vangelo di Matteo», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 223.
[4] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», cit., 958.
[5] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, cit., 287.
[6] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV, Città del Vaticano 2011, 60.
[7] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2007, 138-139.
[8] Ivi, 140.
[9] M. Làconi, «I Vangeli sinottici nella chiesa delle origini», in Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2002, 144-145.
[10] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 451.
[11] Girolamo, Commento a Matteo, lib. IV, in S. Cola – S. Aliquò (a cura di), Commento al Vangelo di Matteo, Città Nuova, Roma 1969, 175.
Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)