Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla Solennità di tutti i Santi /A

Ap 7, 2-4.9-14    Sal 23    1 Gv 3, 1-3    Mt 5, 1-12

Nella solennità di tutti i santi la liturgia, attraverso alcune pagine della Scrittura, offre la possibilità di comprendere nella rivelazione la bellezza stessa della santità come appartenenza al Dio Santo per agire «in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo, e mai come semplice mezzo» [1]. La santità, infatti, non è mai data per sé, ma da sé trova il suo orizzonte di senso verso l’altro: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18).

Tra le disposizioni della Tôrâ, una parte importante è occupa dal “codice di santità”, prescrizioni e precetti morali e rituali che giungono al suo culmine con l’invito: «Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo» (Lv 19, 2). Adonai, infatti, richiama il suo popolo all’osservanza dei comandamenti come mezzi di perfezione: «Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono il Signore, vostro Dio. Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica» (Lv 20, 7); ciò in quanto: «vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere vostro Dio» (Lv 22, 33). Una legge, quindi, che mira a riconoscersi negli atti di ogni giorno come Dio.

Matteo, nella composizione del suo vangelo, presentando Gesù come il nuovo Mosè [2], elabora il primo dei cinque grandi discorsi del Maestro – discorso della montagna (cc. 5-7) – nel riferimento al “codice di santità”, e rivestendo il Messia come il legislatore di una legge definitiva. Ma «il Gesù di Matteo non definisce obsoleta la Torah, come indica la sua replica al giovane che lo ha interrogato: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i commendamenti” (Mt 19, 17). La Torah è buona e vera per tutto Israele; il “di più” è indirizzato ai discepoli di Gesù» [3].

Questo “di più” alle norme di santità trova la sua manifestazione più alta nel testo delle “beatitudini” – riportato anche da Lc 6, 20-23 – come proclamazione dell’amore di Dio ad ogni uomo, specialmente se in una condizione di disagio. Tale uomo, infatti, diventa oggetto della predilezione del Signore, difficoltà che Gesù stesso si fa interprete in quanto situazioni che lui ha vissute (cristologia implicita). Pertanto, «non espressioni di una benedizione conferita, ma riconoscimento di un attuale stato di felicità o benedizione – una proclamazione che ratifica, spesso significando che è giunta la gioia escatologica» [4].

Il Maestro alle regole di santità d’Israele, pertanto, aggiunge la sua stessa persona come modello di fiducia in rapporto al Padre – «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14, 1) –, facendo della Tôrâ una guida al possesso del Regno attraverso la fraternità: nella Chiesa e verso tutti, vissuta con la perfezione stessa del Padre celeste che pone il credente come figlio, in rapporto vitale con Lui (cfr. Mt 6, 1-18). Insegnando così la valorizzazione del proprio stato, pur se nella difficoltà contingente, affinché siano «il sale della terra» (Mt 5, 13) e «la luce del mondo» (Mt 5, 14).

Le beatitudini, poi, richiamano al fine del messaggio evangelico che attraversa momenti di forte tensione, ad una santità che non deve perdersi nelle difficoltà presenti: «Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi» (1 Pt 4, 14). Infatti, se «uno soffre e tuttavia attraverso ciò è beato, allora non è piacere perverso, ma è lo Spirito di Dio, che lo consola e lo sostiene, che lo rende manifesto per ciò per cui soffre» [5].

Esse, dunque, non rappresentano un’antitesi neotestamentaria del Decalogo, come per indicare un’etica più alta del nuovo Israele nei confronti del “codice di santità”, in quanto lo stesso Gesù dà per scontato la validità del δέκα λόγους (dieci parole): «Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre» (Lc 10, 19). Il discorso della montagna, invece, riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce; ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso proprio al discorso sul Decalogo: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tuttavia sia avvenuto» (Mt 5, 17-18).

Più specificatamente, le beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che il Cristo inaugura come rovesciamento dei valori, promesse escatologiche. Questa espressione, tuttavia, «non deve essere intesa nel senso che la gioia che annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente nell’aldilà. Se l’uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri e allora un po’ di éschaton, di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire da Gesù entra gioia nella tribolazione» [6].

Vivere nello specifico una nuova condizione di vita che resta tale in rapporto alla resurrezione di Cristo: «Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale» (1 Cor 4, 11). Il credente, immerso nelle avversità del momento, non li affronta solo, ma nella comunione con il Signore: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20), facendo delle beatitudini una trasposizione della croce e della resurrezione, esse che prima ancora sono state realizzate prototipicamente in Gesù stesso.

Sul piano della santità che Dio richiama come propria e offerta al credente, le beatitudini «non sono meramente dottrine di un’etica superiore, ma notizia dell’irruzione di una realtà di altissima santità. Appelli d’araldo, che annunciano quanto poi Paolo intende, quando nell’ottavo capitolo della Lettera ai Romani parla della gloria dei figli di Dio che nascostamente si sviluppa; e ciò che intendono i capitoli conclusivi dell’Apocalisse, che parlano del nuovo cielo e della nuova terra» [7].

Un’imitazione di Cristo che ha come fine il possedere un cuore puro per vedere Dio (Mt 5, 8), inimmaginabile nel contesto veterotestamentario dove chi vede Dio muore – «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33, 20) –, ma che grazie all’evento della resurrezione ora è pura, incontenibile gioia, nonché instancabile annuncio del Vangelo, ossia condizione autentica di santità.

«La santità dunque non dipende né dalla Legge né dalla capacità della natura, ma dalla fede e dal dono di Dio per mezzo di Cristo nostro Signore, unico Mediatore tra Dio e gli uomini. Se nella pienezza dei tempi egli non fosse morto per i nostri peccati e non fosse risorto per la nostra giustificazione sarebbe inutile la fede dei giusti dell’Antica Alleanza e la nostra. Orbene, tolta la fede, quale perfezione morale rimarrebbe possibile all’uomo dal momento che l’uomo timorato di Dio vive di fede? Da quando infatti per colpa d’un sol uomo il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte e così s’è estesa a tutti gli uomini poiché tutti hanno peccato, senza dubbio dal corpo di questa morte in cui un’altra legge contrasta con la legge della mente, nessuno è stato o è liberato dalla propria capacità, poiché una volta rovinata ha bisogno del Redentore e una volta ferita ha bisogno del Salvatore, ma si viene liberati dalla grazia di Dio mediante la fede nel Mediatore tra Dio e gli uomini cioè nell’uomo Cristo Gesù; egli essendo Dio creò l’uomo e, rimanendo Dio dopo essersi fatto uomo, rifece quello ch’egli aveva fatto» [8].

[1] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in V. Mathieu (a cura di), Rusconi Libri, Milano 1994, 55. Differentemente da Kant, per Bultmann Gesù non possiede un concetto di “moralità”. Nello specifico, «il concetto di moralità e di progresso etico – anche se in qualche altra situazione potrebbe avere senso e legittimità – per Gesù è eliminato perché per lui l’uomo è considerato nel momento assoluto della decisione e perché i concetti di bene e male sono orientati alla volontà di Dio»: R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 20177, 77. Così la sua liberazione, che si esprime anche nelle beatitudini, non consiste nel fatto di insegnare all’uomo a vedere nel bene la legge della sua essenza umana, di annunciare l’autonomia in senso moderno. Il bene è la volontà di Dio, non la realizzazione dell’essere umano.

[2] Negli ultimi decenni sono stati pubblicati numerosi studi esegetici sulla tipologia mosaica relativa al vangelo di Matteo, tra i quali: D.C. Allison, The New Moses: A Matthean Typology, Fortress Press, Minneapolis (MN) 1993, in particolare le appendici di 293-328.

[3] J.-N. Aletti, Senza tipologia nessun vangelo. Interpretazione delle Scritture e cristologia nei vangeli di Matteo, Marco e Luca, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2019, 90.

[4] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Bresca 2001, 261.

[5] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2007, 33-34.

[6] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 95.

[7] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 106.

[8] Agostino, Ep. 177, 11, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXII («Lettere [124-184/A]», tr. it. di L. Carrozzi), NBA – Città Nuova, Roma 1971, 105.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)