Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XXX domenica del Tempo Ordinario /A

Es 22, 20-26    Sal 17    1 Ts 1, 5-10    Mt 22, 34-40

La liturgia di questa domenica propone l’ultima delle tre controversie che alcuni gruppi giudaici sottopongono a Gesù per «coglierlo in fallo nei suoi discorsi» (Mt 22, 15). Dopo aver risposto con il racconto delle tre parabole del “rifiuto” [1] ai «capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 26, 3) che gli chiedono con quale autorità insegnasse, Matteo fa seguire tre dispute fondamentali per il pensiero teologico ebraico: la contaminazione di fronte all’immagine di Tiberio Cesare sulla moneta del tributo (Mt 22, 16-21); l’esistenza o non della resurrezione (Mt 22, 24-32) e il precetto principale su tutti quelli presenti nella Scrittura (Mt 22, 36-40).

I farisei, «avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei» (Mt 22, 34) che gli chiedevano sulla esistenza della resurrezione, giudicandoli di non conoscere «le Scritture e neppure la potenza di Dio» (Mt 22, 29), pongono anche loro il Maestro alla prova attraverso un quesito complesso e che non trova una soluzione condivisa dalle scuole rabbiniche: «Nella Legge, qual è il grande comandamento?» (Mt 22, 36). La domanda non è di facile soluzione in quanto al tempo di Gesù convivono due Torah di eguale importanza: una scritta e un’altra orale. Secondo la tradizione, infatti, «Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti. E i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea. Essi solevano dire tre cose: Siate cauti nel giudizio/Riunite molti discepoli/Fate una siepe attorno alla Torah» [2].

Mosè pertanto ricevette da Adonai la Tôrâ scritta ma con essa anche la Tôrâ orale (nei quaranta giorni sul Sinai studiava quella scritta di giorno mentre mediava quella orale di notte). Esse erano considerate come un dono divino che rivelava la superiorità d’Israele sopra ogni altro popolo; da qui l’uguaglianza di tutti i 613 precetti («תרי”ג מצוות»: «mitzvòt») – 248 positivi, immagine delle membra del corpo; e 365 negativi, immagine dei giorni dell’anno in cui si ricorda di non commettere peccato – senza offrirne una ordinata gerarchia [3].

Trovare il comandamento più importante non è perciò una questione di poco conto, ma Gesù offre una risposta presente negli stessi precetti di Mosè: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22, 37); aggiungendo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Mt 22, 37); due prescrizioni provenienti da due testi fra loro ben distinti (Dt 6, 5 e Lv 19, 18) che il Maestro unisce rendendolo unico attraverso il verbo «ἀγάπη» (amare) [4]. Una risposta, pertanto, che si ricollega alla tradizione giudaica che Gesù assume in una condizione nuova e che Paolo successivamente sviluppa: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13, 8).

Il testo di Dt 6, 5 è già considerato dai farisei preambolo dell’intera Tôrâ e «fulcro spirituale del Deuteronomio [che] la tradizione ebraica ne ha fatto la quotidiana preghiera e la fondamentale professione di fede» [5], contrariamente a Lv 19, 18 che occupa un posto marginalmente. Quest’ultimo, infatti, non implica un’esortazione all’amore universale ma al comportamento del giudizio e dei rapporti con le colpe dell’altro, ossia a non serbare rancore per aprirsi al dialogo, come riporta precedentemente Matteo: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18, 15).

Gesù, citandolo insieme al comandamento verso Dio ne cambia il suo significato divenendone la sintesi generale di tutti i doveri verso il prossimo, come chiarisce meglio l’epistola a Tito: «E’ apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (Tt 2, 11-12). Se Dio è per il mondo intero e non più relativo ad un popolo, così il prossimo lo è non più in quanto appartenente ad un singolo gruppo, ma in quanto umanità.

Il Maestro, dunque, non risponde al dottore della legge attraverso un precetto di puro sentimentalismo nei confronti di Dio e del prossimo – tra l’altro inapplicabile in quanto «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto» [6] – ma in un’applicazione concreta. Nella Scrittura, infatti, l’“amore” viene pensato assai più sobriamente, ossia nel senso, in ogni cosa, di una solidarietà pratica o meglio, nell’orizzonte della giustizia, dare a ciascuno ciò che gli è dovuto. Cosicché «i comandamenti biblici dell’amore non esigono un impegno emotivo dei sentimenti, ma una giustizia pratica che è importante per la convivenza umana» [7].

L’amore che qui Gesù presenta come collante dei due comandamenti veterotestamentari non va però solamente compreso come azione dell’uomo nei confronti di Dio e del prossimo, ma più profondamente come, per così dire, «una corrente viva, che viene da Dio, passa attraverso gli uomini e ritorna a lui; una santa forma di vita, che giunge a Dio all’uomo, dall’uomo al prossimo, dal credente a Dio» [8]. Amare forma una configurazione complessiva fluente che va da Dio al credente, dal credente al prossimo, dal prossimo a Dio, non individualismo ma compagine viva.

La novità dell’interpretazione che Gesù mostra al dottore della legge consiste non tanto in una ricollocazione gerarchica dei precetti della legge, tanto cara alle scuole rabbiniche, piuttosto «nell’aver collocato Lv 19, 18 sull’identico livello [di Dt 6, 5], considerandolo così esso pure “grave”. Nella letteratura giudaica non esiste alcun parallelo a questa formulazione dei due comandamenti che li presenta come se fossero in realtà uno solo» [9]. Il Maestro, pertanto, non intende riscrivere o porsi al di sopra della legge in quanto ne presuppone la sua autorità; ma «la sua posizione verso di essa può essere compresa soltanto se ci si domanda: come egli l’ha intesa? Infatti per un maestro l’essenziale non è l’assunzione di una grandezza autoritativa della tradizione, bensì la maniera con cui egli l’interpreta» [10].

Proprio su questo punto appare la differenza tra Gesù e la pietà legalistica del giudaismo; «una tale libertà di linguaggio [che] non cessa di stupire, soprattutto su due punti, fondamentali all’epoca: da una parte, sulla questione dell’autorità da attribuire a questa parola e, dall’altra, sul modo stesso di situarsi in rapporto a Dio» [11]. Un’interpretazione della relazione divina ed umana che trova il suo compimento nelle parole di Giovanni – «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4, 20) – e nel dono della carità divina nel battesimo, come scrive Agostino d’Ippona:

«Se ancora non hai l’amore, gemi e credi; chiedi e otterrai. Ciò che ti viene comandato, ciò che la legge impone, la fede ottiene. Se quanto devi impetrare già lo possiedi, [ricorda le parole]: Che cosa hai tu senza averlo ricevuto? (1 Cor 4, 7). Se non lo possiedi, chiedilo per poterlo ottenere. Quel che noi chiediamo è la carità (1 Gv 4, 16). Se ancora non l’abbiamo, chiediamola per non restarne privi. Come infatti potremmo attingerla in noi stessi se, essendo cattivi, non abbiamo nulla di buono per meritarla? La otterremo piuttosto da Colui al quale dice la nostra anima: Benedici il Signore, anima mia, e non dimenticare i tanti suoi benefici. Egli è misericordioso verso tutte le tue iniquità (Sal 102, 2-3). Ciò avviene direttamente nel battesimo» [12].

[1] Rispettivamente quella dei due figli (Mt 21, 28-30); dei contadini omicidi (Mt 21, 33-39) e del banchetto di nozze (Mt 22, 2-13), come un ultimo tentativo di Gesù nel proporre una conversione.

[2] Aa.vV., Trattato di Abot o sentenze morali dei Rabbini, 1.1, in J. Costa (a cura di), Tip. Salomone Belforte, Livorno 1859, 37,

3 Interesse degli scribi e farisei era quello di rendere complicata la legge scritta con tanti precetti orali che portavano ad adombrare il vero significato del precetto stesso; è la cosiddetta “siepe” intorno alla legge. Un esempio è quello relativo al quarto comandamento. In Mc 7,9-13 si parla dell’offerta al tempio, il Korban o prosbol, che di fatto annullava il comandamento al sostegno della vecchiaia dei propri genitori. Il maestro Hillel (110 a.C. – 10 d.C.), davanti al problema dei prestiti nell’anno giubilare [Dt 15,1-2: «Alla fine di ogni sette anni celebrerai l’anno di remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che abbia diritto a una prestazione personale in pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto: non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, quando si sarà proclamato l’anno di remissione per il Signore»], affermava che, in questo, caso, non è il singolo, ma l’assemblea a far prestito nell’anno sabbatico. Così come il riacquisto della casa di chi, durante la giornata, si è pentito della vendita.

[4] Lo storico tedesco Albrecht Dihle (1923-2020) ha approfondito questo rapporto inscindibile tra i due comandamenti veterotestamentari citati da Gesù nel suo studio: Der Kanon der zwei Tugenden, Westdeutscher Verlag, Köln 1968.

[5] G. Barbiero, «“Ascolta, Israele” (Dt 6, 4-25)», in Torah e storiografie dell’Antico Testamento, G. Borgonovo e Coll. (a cura di), Elledici, Leumann (Torino) 2012, 534.

[6] B. Pascal, Pensieri, 277, in F. De Poli (a cura di), BUR, Milano 1999, 94.

[7] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2007, 130.

[8] R. Guardini, Il Signore. Riflessioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo, Morcelliana, Brescia 2005, 103.

[9] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo», in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 951.

[10] R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 20177, 59.

[11] C. Perrot, Gesù, Queriniana, Brescia 20042, 65-66.

[12] Agostino, Serm. 90/A, 14, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXXI/1 («Discorsi [86-116]: sul N. Testamento», tr. it. di L. Carrozzi), NBA – Città Nuova, Roma 1983, 75.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)