Articoli / Blog | 08 Ottobre 2020

Agi – Come ritroveremo quel contatto fisico che il virus ci ha tolto?

“Sono contento che tu sia qui”. Dopo il DPCM con le nuove restrizioni, forse converrà dirselo più spesso.
Visto che gli altri canali per comunicarsi importanza, stima, affetto sono in gran parte ostruiti o per lo meno opachi, per far sapere a chi abbiamo accanto che per noi lui/lei è importante, non ci rimane che la parola.
Secondo Gary Chapman, uno dei guru mondiali su come ci si manifesta l’affetto, i linguaggi dell’amore sono cinque: parlarsi, gesti di servizio, momenti speciali, doni e, appunto, contatto fisico.
Le nuove regole introdotte dal governo mettono in crisi soprattutto l’ultimo canale che, da noi nel Bel Paese è – o meglio era – largamente utilizzato. Quando si legge “contatto fisico”, infatti, non bisogna pensare all’atto sessuale, o non bisogna farlo in esclusiva.
“Contatto fisico” è darsi la mano, toccarsi nella spalla, ma, soprattutto, essere vicini fisicamente, varcare la soglia della prossimità: proprio quel confine che con il distanziamento dovuto e necessario è diventato per tutti noi un muro invalicabile.
Queste mie considerazioni non vanno lette nel contesto di chissà quale love story ma nel rapportarsi più quotidiano e umile. Penso per esempio a un ufficio, a una classe, a uno studio medico, alla sala riunione dei professori di una scuola.
Prima del Coronavirus era tutto un incrociarsi, uno sfiorarsi, un prendere il caffè assieme mentre ci si diceva, con le espressioni del volto e del corpo: meno male che ci sei, aiutami, ci sono qui io che sono al tuo fianco, non sei solo nell’affrontare quel problema. Adesso tutto ciò è compromesso.
Stiamo ad almeno un metro di distanza, la mascherina ci copre metà del volto e, chi porta gli occhiali come il sottoscritto, ha spesso anche la vista appannata. Ricordiamoci che le espressioni sono manifestate da tutto il volto non solo dagli occhi: ma ora noi siamo mutilati di tutto ciò. Per questo è necessario dirselo. Dirsi, quando l’infermiere entra in corsia, “meno male che sei qui oggi”. Quando la collega arriva dire “sono contento che tu sia arrivata”. E, via via, utilizzare tutto l’arcobaleno delle verbalizzazioni. Insisto sull’importanza del parlare perché gli altri linguaggi sono per forza di cose più adatti a declinare quell’amore che è qualcosa di più dell’empatia o del fare squadra: è evidente che se voglio dire al collega il mio sollievo nel non essere più solo ad affrontare una grana di lavoro, non posso invitarlo a cena o fargli un regalo, né posso ascoltarlo per due ore sui suoi problemi familiari visto che magari ci conosciamo appena, e neppure posso mettergli in ordine la scrivania, svuotargli il cestino e cambiargli la lampadina che si è fulminata del tavolo dove lavora. D’altro canto in famiglia le regole del distanziamento non valgono e lì, quindi, rispetto al linguaggio del corpo e della prossimità, possiamo essere quelli di sempre.
Sottolineo quindi che l’importanza della verbalizzazione amicale vale, è necessaria, soprattutto per gli ambienti “medi”: per questo ho fatto tanti riferimenti al mondo del lavoro. Prima ci si stringeva la mano, ci si avvicinava per un caffè, si sorrideva. Oggi tutto questo non si può fare e, sul lavoro, questa mera assenza genererà mancanza di complicità, di empatia, produrrà malumori, incomprensioni, conflitti, interpretazioni distorte, che solo una verbalizzazione più esplicita dell’interesse e felicità reciproca per il condividere la stessa mission, può scongiurare.

Tratto da Agi