Articoli / Blog | 10 Giugno 2020

L’Osservatore Romano – Concretezza della relazione. Un libro spiega le religioni ai giovani

Nell’edizione del 10 giugno 2020 de L’osservatore Romano, è stata pubblicata – con una introduzione della testata – una parte del mio ultimo libro Le religioni spiegate ai giovani. Ringrazio infinitamente di ciò il direttore Andrea Monda

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Cogliere le caratteristiche più importanti di ciascuna religione e, con linguaggio chiaro e divulgativo, spiegare come e quando sono nate e quali sono gli aspetti che le accomunano incontrando un testimone di ciascuna di esse: l’obiettivo di Le religioni spiegate ai giovani. Convivenza e dialogo nella diversità (Santarcangelo di Romagna, Diarkos editore, 2020, pagine 318, euro 16) lo evidenzia lo stesso autore del libro, Mauro Leonardi, sacerdote e scrittore, ovvero far arrivare ai giovani il «messaggio fondamentale che la conoscenza è alla base dell’accoglienza e dell’accettazione fra diversi, e il credo religioso, qualunque esso sia, se tende a unire e non a dividere può essere un formidabile cemento». Leonardi, per veicolare il messaggio, si serve di undici testimoni, «interlocutori non solo competenti sulla propria religione ma che condividessero il progetto del libro», occasione per lavorare sulla via della pace, «visto che conoscere l’altro è il primo passo per rispettarlo». A parlare di cristianesimo, ad esempio, sono stati chiamati Chiara Giaccardi, docente di sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica di Milano, nonché componente del comitato di direzione del nostro mensile «donne chiesa mondo», e don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e liberazione; testimone dell’ebraismo è David Parenzo, giornalista, conduttore radiofonico e televisivo, mentre per l’islam l’incontro è con Shahrzad Houshmand Zadeh, teologa, docente, anch’ella tra le firme di «donne chiesa mondo». Del volume di Leonardi — consigliato a tutti i giovani in cerca di risposte non solo spirituali — pubblichiamo stralci della conclusione.

Un tempo il dialogo inter-religioso era relegato ad alcuni spazi istituzionali in cui dibattevano le élite culturali, religiose e politiche degli Stati. Probabilmente i miei genitori, che hanno sempre vissuto in Italia, non hanno mai interagito con qualcuno che appartenesse a una religione diversa da quella cattolica. Oggi invece ciascuno di noi è chiamato a diverso titolo a entrare in dialogo, talvolta anche intimo e importante, con persone di altre religioni. La sfida della necessità del dialogo pone il problema della riflessività: ciascuno di noi è chiamato a riflettere su come possa essere la propria relazione con chi ha un’altra fede. Se dobbiamo dialogare, il dialogo deve essere vero. I buoni sentimenti non bastano. C’è bisogno che intervenga anche la ragione. Non basta il negativo “non facciamoci del male”, “non litighiamo”, “non usiamo violenza” e così via. Cosa significa davvero convivere pacificamente? Cos’è questa con-vivenza, questo “vivere insieme”? Il rischio dell’indifferentismo, cioè del “tutti differenti tutti uguali”, è gravissimo perché l’espressione dice che la diversità è insignificante, indifferente, ovvero la differenza non vale più, non c’è più, non esiste più, non ha nessun significato. Ma, se così fosse, questo sarebbe un’enorme problema, perché ciascuno di noi ha bisogno di definire la propria diversità, dal momento che la nostra identità viene definita in quanto differente da quella degli altri: la relazione è possibile solo fra diversi. La soluzione del problema della diversità religiosa, quindi, non è dire che non esiste, che non c’è alcuna differenza, ma rendere questa diversità con-vivente con quella degli altri.

Che significa diversità convivente? Significa porre in essere delle relazioni in cui da una parte si mantiene la diversità e dall’altra, nello stesso tempo, si alimenta, attraverso questa diversità, una relazione di piena convivenza. Propongo pertanto, sulla scia degli insegnamenti del sociologo Pierpaolo Donati, di parlare di interculturalità invece che di multiculturalismo, di inter-religiosità invece che di multi-religiosità. Cos’è l’inter-cultura, cos’è l’inter-religiosità? È trovare ciò che accomuna nel “fra”, nell’“inter”. Può sembrare una novità e invece è ciò che è già accaduto storicamente moltissime volte. È avvenuto tra cristiani e musulmani nei numerosi secoli e nelle tante nazioni in cui convivevano pacificamente, è accaduto tra cristiani di diverse confessioni dopo gli anni, e forse i secoli, in cui i loro rapporti erano stati di “guerra religiosa”: inter-religiosità è lo sforzo per trovare degli spazi comuni in cui coltivare gli stessi valori — quello della pace per esempio — anche se a partire da sensibilità diverse, da modi di vedere diversi, e quindi, in sostanza, in modi diversi.

Ogni religione ha delle idee diverse su come si debba guidare moralmente una nazione nella quale costituisce maggioranza: se però il problema viene affrontato così le soluzioni diventano davvero ardue. Se invece si rimane sul terreno della pratica, si scopre che le soluzioni sono tante e accessibili. Perché “in pratica” in Italia, per rimanere a noi, il problema è già risolto visto che esiste la Costituzione e sono le leggi dello Stato italiano a reggere tutto: nessuna religione può andare contro la Costituzione, nessuna religione può andare contro le leggi. Gli spazi dunque ci sono e sono quelli creati dalle leggi.

È un’affermazione nota quella per cui in Giappone alla nascita si è shintoisti, al momento del matrimonio si è cristiani (nel senso del matrimonio monogamico) e alla morte si è buddhisti. Ecco, quando parlo di valorizzare le differenze intendo qualcosa di profondamente distante da tutto ciò. Se, per esempio, mettiamo a tema la questione della pace, la necessità di sottolineare quanto sia immorale costruire e detenere armi nucleari, non è uguale (nel senso di indifferente) se questo discorso viene portato avanti con una sensibilità e quindi delle ragioni da parte dei cristiani, che vanno a sommarsi a quelle dei musulmani, a quelle degli induisti o a quelle dei buddhisti. Se rimaniamo al livello delle persone concrete — e non dei convegni, pur importanti, tra le istituzioni — è chiaro che ciascuna appartenenza religiosa aggiungerà qualcosa perché non entreranno in dialogo “le religioni” ma delle persone singole: cristiane, induiste, ebree, musulmane e così via, con punti di vista che, in quanto personali, cioè di vite singole, sono parziali, hanno i loro limiti, le loro caratteristiche, un vissuto concreto che non esaurisce l’intera gamma delle possibilità teoriche. Se un cristiano cattolico parla di carne con un induista vegano, molto probabilmente non giungerà a un accordo se sia bene o male “in astratto” mangiare carne, però il punto di vista dell’induista potrà contribuire a che il cattolico abbia un’alimentazione più sana, con meno colesterolo, e che in generale sia più facile concedere licenze perché aprano più esercizi vegani o affinché nelle mense aziendali ci sia anche la variante vegana del menù. Se dopo una partita dei mondiali di calcio la squadra del Giappone lascia perfettamente in ordine il proprio spogliatoio — come accadde ai Mondiali 2018 in Russia — così che non ci sia neppure bisogno delle pulizie, quell’ordine, uguale per tutti, dice alle altre nazioni qualcosa che si aggiunge al modo di vedere l’ordine di tutti gli altri.

Perché parlo di cristiani e non di cristianesimo, di buddhisti e non di buddhismo? Perché la discussione su cosa possa aggiungere o togliere ogni religione, se fatta in astratto e in termini assoluti, rischia di essere infinita e anche improduttiva; il discorso invece diventa molto più semplice e fruttuoso se si parla non più della religione in termini di principi ma di fedeli concreti. Molto diverso è chiedersi cosa possa dare il cristianesimo alla causa della pace o cosa possono dare “Paolo Rossi” e “Giovanni Bianchi”: essi, pur essendo cristiani cattolici, magari non sapranno rispondere alla domanda su cosa in astratto il cristianesimo possa dare, ma possono rispondere alla domanda su cosa loro, in quanto persone specifiche, pensano di poter dare alla specifica questione della pace. E lo stesso ragionamento vale se al posto di “Paolo Rossi” o di “Giovanni Bianchi” mettiamo i nomi di cittadini italiani che siano buddhisti, induisti, confuciani, cristiani di confessione valdese e così via.

La convivenza tra fedeli appartenenti a diverse religioni studia gli spazi in cui è possibile che le diversità si intreccino. La dogmatica interna di ogni religione non può essere messa a dialogo (a meno che lo si decida esplicitamente), e neppure è possibile toccare l’ortoprassi per così dire “privata”. Quello però che gli appartenenti alle diverse religioni devono fare è essere riflessivi sulle loro relazioni, ovvero cercare esattamente gli spazi dove entrare in dialogo. Oggetto del dialogo inter-religioso non è definire se è vero o no che Gesù Cristo è realmente presente nell’eucaristia, ma come avere relazioni tra di noi — cioè tra due o più persone appartenenti a diverse religioni — pur avendo convincimenti diversi rispetto al dogma “interno” o rispetto all’ortoprassi interna. Essere riflessivi significa non far pesare la dogmatica interna nelle relazioni con gli altri ma decidere che deve essere prevalente lo sforzo per costruire una sfera esistenziale, societaria, comune, in cui ciascuno è se stesso non appiattendo le proprie differenze ma facendo diventare le differenze una risorsa per creare una sfera comune, un ambito sociale comune in cui vivere.

Fino a oggi quando si parlava di razionalità lo si intendeva come aggettivo che andava accompagnato “allo scopo” o “ai valori”. Oggi dobbiamo anche pensare alla razionalità “della relazione”: ovvero si tratta di interrogarsi sulle ragioni delle relazioni. Le relazioni fra religioni diverse hanno delle ragioni proprie, cioè le ragioni per cui un musulmano tiene alla relazione con un cristiano probabilmente sono diverse dalle ragioni per cui un cristiano tiene alla relazione con un musulmano, ma, pur essendo ragioni diverse, sono ragioni per una medesima relazione. Questo libro è uno sforzo per dire che occorre prendersi cura di quelle ragioni, delle ragioni delle relazioni, senza toccare la dogmatica interna delle diverse religioni. Ripeto: non si tratta di toccare la dogmatica cattolica, o dell’islam o degli indù, ma di lavorare sulla necessità di spazi nei quali costruire assieme.

Un cattolico può apprezzare una relazione di empatia con l’induismo non perché aspira a diventare indù ma perché trova, nel cattolicesimo, le ragioni per costruire, mantenere e alimentare le ragioni cattoliche della relazione con gli indù. E occorre tener presente che un modo sottile per tradire la dogmatica interna sarebbe quello di trasformare a propria volta il desiderio di relazione tra religioni in una “religione”. La relazionalità non deve diventare la religione. Bisogna che la sfera comune delle relazioni fra le diverse religioni non divenga essa stessa il nucleo della relazione: il nucleo della relazione è la diversità identitaria di ogni religione. Ciascuno deve tenere alla relazione dal proprio punto di vista: altrimenti sarebbe solo un divinizzare la relazione, ovvero una sorta di New Age. Ognuno deve essere sé stesso e dobbiamo essere capaci di convivere e di volerci bene da diversi; dobbiamo apprezzarci, rispettarci, promuovere la differenza, ma senza fare di questa sfera d’incontro, di sharing (cioè di divisione nel senso della condivisione, della compartecipazione) una religione in sé.

di Mauro Leonardi

L’Osservatore Romano