Articoli / Blog | 03 Giugno 2020

Agi – Chi è Enzo Bianchi e perché la comunità di Bose è così importante

La vicenda dell’allontanamento di Enzo Bianchi – e di altri tre monaci – dalla Comunità di Bose, non avrebbe particolare risonanza se non fossero importanti e noti i protagonisti.

Che cosa è la comunità di Bose

Bose è una minuscola frazione del comune di Magnano, in provincia di Biella, dove, a partire dal 1965, Enzo Bianchi cominciò a costruire qualcosa di nuovo. La data da lui scelta per iniziare da solo un cammino inedito nella Chiesa, è stata significativamente quella dell’8 dicembre 1965, ovvero l’ultimo giorno del Concilio Vaticano II.

Attualmente la Comunità di Bose è composta da una novantina di membri, uomini e donne celibi appartenenti a diverse confessioni cristiane, e che per la quasi totalità non sono ordinati sacerdoti.

Chi sono i ‘monaci’ di Bose

Ma la novità di Bose, come spesso accade nella Chiesa, è il suo desiderio non di “fare novità” ma di tornare alle origini. Quando una persona della strada sente la parola “monaco” o “monaca”, pensa a benedettini, clarisse, cistercensi, e così via, persone cioè che vestono in modo particolare, sono tutti uomini oppure donne, prendono i classici voti di povertà, castità ed obbedienza, spesso, se sono maschi, ricevono il sacramento dell’ordine, ma, soprattutto, sono tutti cattolici.

Basta leggere invece sul sito ufficiale come si svolge la giornata della Comunità di Bose, per accorgersi che a Bose (e in qualche altra località dove la comunità si è in seguito diffusa) tutto ciò avviene in modo diverso. Lì, si trovano a vivere assieme secondo una regola molto esigente, uomini e donne di diverse confessioni, quasi tutti laici (ovvero, pur facendo la scelta del celibato, senza voti e senza sacramento dell’ordine), che pregano, lavorano, studiano e stanno in silenzio, l’intero giorno. Il centro della preghiera comune, pertanto, non è la Santa Messa ma la lettura della Bibbia secondo un ritmo proprio, approvato dalla Chiesa cattolica.

Chi è Enzo Bianchi

Questa scelta di Bianchi, che essendone l’iniziatore ne è stato anche il fondatore, pare nuova ma in realtà è antica. Francesco d’Assisi, non aveva fatto i voti – che sono una novità successiva della Chiesa – e neppure era sacerdote. Il poverello d’Assisi si considerava un laico che vestiva come i più poveri del tempo.  

Le parole che descrivono nel modo più sintetico lo spirito di Bose dicono che “il senso e lo scopo di Bose continuano a riposare solamente nella sua tensione a una vita radicalmente evangelica. Ciascuno dei suoi membri ricerca questo mirando a un’interiorizzazione delle esigenze evangeliche e vivendo nell’intimo di sé, nella radice del proprio essere, la povertà, l’obbedienza e la castità. Ognuno ricerca l’unità della propria persona per offrire il proprio essere indiviso al Signore nell’assiduità con lui e per essere segno credibile e autorevole di unità e pacificazione per i fratelli e per gli uomini che incontra. Nella vita monastica è lo Spirito a chiamare, pur servendosi di mediazioni umane, e non la chiesa tramite il ministero episcopale, come accade per i ministeri ordinati”. Insomma ciascuno si avvicina a Dio, nel celibato, attraverso la preghiera, il lavoro e la fraternità, ma non il sacramento dell’ordine.

A chi piacciono Bianchi e Bose

Mentre la Comunità di Bose riceve, pur tra diversi contrasti e difficoltà, le approvazioni ecclesiali dovute, Enzo Bianchi diventa una figura sempre più autorevole nel panorama ecclesiale e culturale del nostro paese e, godendo presso tutti di enorme stima ed autorevolezza, su di lui si appoggiano, a diverso titolo, gli ultimi tre pontefici. Con Papa Francesco, in particolare, c’è stata una straordinaria sintonia, tanto che nel 2017 i media ventilarono l’ipotesi che Bergoglio potesse nominare Bianchi “cardinale laico”, cosa di per sé tecnicamente possibile.

Perché Bianchi è stato allontanato

Proprio per questa intimità tra i due, l’allontanamento di Bianchi da Bose è clamorosa. Eppure, se la si guarda con la normale e millenaria prospettiva ecclesiastica, è facilmente spiegabile, anche se dolorosa.

Dietro di essa non ci sono delitti turpi o fatti non raccontabili: c’è solo la normale fatica di un genitore che non “lascia andare” il proprio figlio, di un fondatore che ha grandi difficoltà a distaccarsi dalla propria creatura.

Nei comunicati ufficiali si parla di serie problematiche riguardanti l’esercizio del governo e della fraternità, e io credo davvero che si tratti di questo e di nient’altro. È una tragedia della generatività umana ed ecclesiale che nei secoli è sempre stata coperta e minimizzata, ma che per Papa Francesco è gravissima e più importante dei legami dell’amicizia e della stima.

Un distacco doloroso

Bergoglio, durante il suo pontificato, ha fin da subito messo in chiaro che allo scadere dei 75 anni chi comandava doveva lasciare il timone, e questa passaggio di mano nella comunità di Bose è avvenuto tra il dicembre 2016 e il gennaio 2017, ma, secondo quanto verificato dalla visita apostolica durata un mese (dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020), questo distacco è stato più formale che reale, ed ha comportato l’emanazione di un decreto di allontanamento ad hoc firmato da Parolin e sottoscritto da Papa Francesco.

Bianchi e i suoi compagni, dopo le normali resistenze, hanno accettato quanto deciso in Vaticano. Consapevoli come ha scritto l’autorevole gesuita Sorge dell’importanza della Chiesa. “A questo punto Enzo Bianchi deve accettare con amore la sofferenza della prova. La ribellione e la resistenza sarebbero un errore fatale perché in questi casi si accetta la croce anche senza capirne le ragioni. Quando la Chiesa interviene, si bacia la mano della Chiesa che è la nostra madre e non ha nessun interesse di massacrare un figlio. Poi si vedranno i frutti, le botte prese sono l’autenticazione dell’opera di Dio. Ecco perché a Bianchi consiglio di fare le valigie subito e di andare dove lo mandano, e di farlo con gioia”.

Perché nessuno vuole minimizzare il grande dono profetico della Comunità di Bose per la Chiesa. E anche Bianchi, dopo la prima comprensibilissima reazione di sofferenza, saprà trasformare il dolore in risorsa. Per sé e per la Comunità.

Tratto da Agi