Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla Domenica di Pasqua / A
At 10, 34a.37-43 ⌘ Sal 117 ⌘ Col 3, 1-4 ⌘ Gv 20, 1-9
Dopo i giorni del Triduo Pasquale, vertice della liturgia cristiana, la Chiesa rinnova la sua gioia e la sua fede nell’evento che ha cambiato la storia dell’umanità offrendo all’uomo la possibilità di non considerarsi più creatura ma figlio amato di Dio Padre per mezzo del sangue del redentore Gesù Cristo. Dio, infatti, «lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio» (At 10,40-41), che oggi incontreremo nella lettura del vangelo di Pasqua.
Il c. 20 di Giovanni situa tutte le apparizioni del Signore risorto in Gerusalemme (come Luca e Mc 16,9-20 e diversamente da Matteo e Mc 16,1-8), senza indicazione di apparizioni che devono aver luogo in Galilea. Particolarmente, in Giovanni sono drammatizzati quattro differenti tipi di risposta di fede al risorto Gesù: due scene che si svolgono presso la tomba vuota e due in una stanza in cui i discepoli sono riuniti. La seconda e quarta scena si concentrano su relazioni individuali: Maria di Magdala e Tommaso, secondo la predilezione del IV vangelo sull’incontro personale con Gesù, come viene indicato dagli studi esegetici di D.A. Lee, «Partnership in Easter Faith: The Role of Mary Magdalene and Thomas in John 20», JSNT 58 (1995) 37-49.
«Il primo giorno della settimana» (Gv 20,1); Giovanni dichiara sin dal principio, con riferimento a Gen 1,1, che questo suo libro parla della nuova creazione in Gesù. In questo capitolo, infatti, afferma la stessa cosa, sottolineando che la Pasqua era il primo giorno della settimana. Il sesto giorno, nel racconto della creazione, fu creata l’umanità a immagine divina; il sesto giorno dell’ultima settimana della vita di Gesù, Giovanni fa dire a Pilato: «Ecco l’uomo!» (Gv 19,5). Il settimo giorno è il giorno del riposo del creatore; in Giovanni è il giorno in cui Gesù riposa nella tomba. Pasqua, quindi, è l’inizio della nuova creazione: «La crocifissione è il momento culminante e l’apice dei “segni” che Gesù ha dato, seguendo la semplice serie della vecchia creazione. (Da un certo punto di vista, evidentemente, la crocifissione stessa e poi la resurrezione sono le verità verso cui tendono tutti gli altri segni, ma da un punto di vista esse stesse funzionano adesso come segni rivolti al mondo, come indici che mostrano la vita e l’amore di Dio incarnati in Gesù). Ora, nell’ottavo giorno, compare l’ottavo segno; l’intera sequenza aveva di mira la nuova creazione che esplode in mezzo alla vecchia» [N.T. Wright, Risurrezione, Claudiana, Torino 200611, 773].
Maria di Magdala si rende testimone della tomba vuota e annunciatrice agli apostoli dell’evento della resurrezione. Anche i sinottici pongono alcune donne al sepolcro (Mc 16,1; Mt 28,1; Lc 24,1) perché differentemente dagli uomini, esse «danno un’altra testimonianza: attestano una capacità di attesa, una fedeltà coerente, uno struggente desiderio di fare qualcosa per Gesù anche dopo la sua morte» [L. Pacomio, Gesù. 37 anni che cambiarono la storia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20004, 256]; ma il IV vangelo parla di una sola donna, colei che era stata «presso la croce di Gesù» (Gv 19,25). Ella, quindi, «si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buoi» (Gv 20,1). Un’indicazione contrastante: se è mattino, non c’è più l’oscurità della notte. In realtà, come abbiamo più volte riscontrato, il vangelo di Giovanni gioca simbolicamente tra descrizione fisica e situazione interiore. È il mattino, trionfo della luce sull’oscurità, immagine della vittoria della vita sulla morte: «Morte e vita si sono battute in duello impressionante il Signore della vita, morto, vivo trionfa» [Wippone di Borgogna, «Victimae paschali laudes», del 1039]; ma nell’animo di Maria di Magdala vi è ancora il buio e il pianto.
Vedendo «che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1) corse per annunciare questo fatto ai discepoli, e così correndo anche loro, Pietro e l’altro discepolo si recarono al sepolcro. Secondo Ireneo di Lione questo apostolo che resta anonimo è da identificarsi con «Giovanni, il discepolo del Signore, proprio colui che aveva riposato sul suo petto, pubblicando anche lui un Vangelo, mentre soggiornava ad Efeso in Asia» [Adv. Haer. III, 1,1]. Egli è il prototipo dei discepoli, nel quale i lettori del vangelo sono invitati a riconoscersi. Tuttavia, «l’idealizzazione del discepolo non dissolve la sua realtà storica. Per l’autore del quarto Vangelo il discepolo è la fonte e il garante della tradizione autorevole e sicura, sulla quale si fonda il documento scritto dei “segni” compiuti da Gesù» [R. Fabris, Seminario sulla letteratura giovannea. Status questionis sul quarto Vangelo, in Pontificium Istitutum Biblicum, Roma, 2013].
Essi, quindi, «correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro» (Gv 20,4) ma non entrò, attendendo l’arrivo di Pietro. In questa corsa alcuni esegeti vedono rappresentata la situazione delle due chiese fino al I sec. – relativamente con la morte di Pietro e di Giovanni – ossia quella petrina, istituzionale, e quella giovannea, carismatica. Simon Pietro non era ben considerato dalla comunità giovannea, differentemente da Giovanni, che corre più veloce e comprende e crede prima. Tuttavia, il carisma aspetta l’istituzione in un reciproco rispetto. Tale diatriba, che resta fino al IV sec., porta il Vescovo d’Ippona a scrivere «che nessuno pensi di separare questi due illustri apostoli» [Agostino, In Io. Ev. tr., 124, 7, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXIV/2 ([51-124], tr. it. E. Gandolfi – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 19852, 71].
Secondo, invece, un’altra interpretazione, «dal momento che la fede pasquale appare molto ardita e spesso sembra avere soltanto il grado di certezza della poesia, il vangelo di Gv attribuisce il massimo valore ad una precisa salvaguardia delle testimonianze da addurre: per questo al sepolcro il discepolo amato aspetta che Pietro lo raggiunga, a dimostrazione del fatto che non poté manipolare niente, e in tal modo sono due i testimoni (secondo Dt 19,15 la cifra minima) che vedono il sepolcro vuoto» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2014, 528]. Il quarto evangelista, quindi, non mette in discussione la tradizione che Pietro fu il primo di Dodici a vedere il Signore risorto (Lc 24,34; 1 Cor 15,5); ma «per il suo costante desiderio di esaltare il discepolo amato, in Giovanni quel discepolo giunge alla fede ancor prima che il Signore risorto appaia o che sia richiamata la Scrittura profetica» [R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 490].
Essi scorsero «τὰ ὀθόνια» (Gv 20,5.6), un grande lenzuolo di lino che avvolge il corpo unto del defunto, alto un metro e lungo circa quattro; l’altro discepolo «vide e credette» (Gv 20,8). Il corpo è scomparso ma i teli conservano ancora la forma del corpo. Anche Maria di Magdala ha visto i teli sgonfi ma non ha compreso l’impossibilità di rubare il corpo senza toccare i teli e scomporre quella forma. In questo brano è insistente l’uso che viene fatto dell’azione del “vedere” attraverso l’utilizzo di tre diversi verbi. Il primo è riferito a Maria di Magdala che «βλέπω», ossia ha una semplice percezione fisica del vedere, senza capirne il senso. Pietro «θεωρεω», osserva le bende, inizia un ragionamento ma non giunge ad una conclusione. L’altro discepolo, infine, «ὁράω», vide ma con uno sguardo profondo, più spirituale che fisico, ossia il vedere che porta alla fede e che fa nascere l’atteggiamento credente. «Tutto il racconto è condotto con un movimento ascensionale: la pietra è tolta e questo fa pensare che il Signore sia stato portato via dal sepolcro; nel sepolcro si trovano i panni mortuali di Gesù, disposti in un ordine particolarmente eloquente […] Tutto è senza spiegazione finché non giungono le parole di Gesù a dichiarare che si è stabilita una nuova economia di comunione tra lui e i suoi discepoli» [G. Ghiberti, «Le esperienze pasquali (Gv 20-21)», in Opera giovannea, G. Ghiberti e coll. (a cura di), Elledici, Torino 2003, 308].
Per noi cristiani la resurrezione è fondamento della nostra fede perché «realizza quello che [Gesù] ci ha recato in sé già da sempre. Chi rifiuta la resurrezione, rifiuta con azione retrospettiva anche tutto questo con cui essa è strettamente unita nell’essere e nella coscienza di lui. Quanto poi ancora rimane, non vale più la pena di credere con una fede» [R.E. Guardini, Il Signore, Morcelliana, Brescia, 2005, 539]. Infatti, come scrive Benedetto XVI «se si toglie questo, si potrebbe, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo –, ma la fede cristiana è morta» [Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla resurrezione, LEV, Città del Vaticano, 2011, 269].
«Se in questo mondo fu felice Cristo, lo sarai anche tu. Venendo nella regione dove tu giaci morto, cosa vi trovò Cristo? Notalo bene! Egli proveniva da una regione diversa: ebbene, quando venne quaggiù, cosa vi trovò se non quelle cose che quaggiù abbondano? Tribolazione, dolori, morte: ecco quello che si trova quaggiù, che quaggiù abbonda. Mangiò insieme con te i cibi che in abbondanza erano riposti nella dispensa della tua miseria. Bevve l’aceto, gli fu dato il fiele. Ecco cosa trovò nella tua dispensa. In cambio, egli ti invitò alla sua grande tavola imbandita, alla mensa celeste, alla mensa degli angeli dove pane è lui stesso […]. Se quindi al presente ci tocca vivere nella carne soggetta a corruzione, moriamo con Cristo cambiando condotta, e viviamo con Cristo amando la santità. Ricordiamoci che non conseguiremo la vita beata se non quando saremo giunti là dove è colui che è disceso in mezzo a noi e quando cominceremo a vivere totalmente uniti a colui che è morto per noi»: Agostino, Serm., 231, 3-5, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXXII/2 («Discorsi [230-272B]: su i Tempi liturgici», tr. it. P. Bellini – F. Cruciani – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 1984, 31.
Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)