Lettere di M. B. – Cronache di un medico contagiato da Covid-19 (16)

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26.03
Oggi non riesco a scrivere, non riesco a buttar fuori nero su bianco i sentimenti contrastanti che ho dentro: forse perché non vogliono palesarsi chiari, non riesco a coglierli nitidi.
Già: perché sono troppo contrastanti tra loro e forse perché non oso nemmeno io leggerli fino in fondo e mettermi a nudo così. Mi è difficile, perché è un nudo che ti si palesa lì con “addosso” tutte le sfumature dell’animo umano dalle più nobili alle più buie: rabbia, condivisione, dolore, risentimento, ansia, paura, solitudine, superbia, incomprensione, coraggio, tenerezza, desolazione, solidarietà, orgoglio, debolezza.
Oggi non riesco a scrivere perché, lavoro a parte (quello è incredibile ma mi riesce sempre), piango.
Faccio fatica anche a guardarmi allo specchio perché i capelli bianchi e le occhiaie mi affondano il morale già provato.
Faccio fatica ad essere serena e amorevole in casa
Faccio fatica.

27.03

Ma le giornate, anche nei giorni del Covid, fortunatamente non sono tutte uguali.
Il nostro amico a Catanzaro è stato estubato. Il papà di mia cognata non ha più la febbre, satura meglio e si sente un pochino più in forze, raccontano che ha ripreso a mangiare: tre fette di bresaola: sembra poco ma è un grande traguardo per lui.
Il cugino di mio marito anche migliora: fiato in miglioramento, tosse pure.
Questi ultimi due cari amici (ma come tante altre persone del resto) mi hanno lucidamente raccontato di aver visto la morte molto vicina in due, tre momenti nei giorni scorsi: hanno sentito che non ce l’avrebbero fatta, tanto si sentivano prostrati, sfiniti, con un oppressione al petto e un fiato corto da non riuscire nemmeno a descrivere appieno.
Altre storie finiscono con la morte ma che può essere almeno un poco condivisa: quando i parenti possono riavere la bara (rigorosamente chiusa, senza poterlo rivedere) e direttamente al cimitero. Contenti dunque di avere la vicinanza fisica dentro a quella bara del corpo morto, anche se intoccabile. Quante volte in questi giorni mi si è affacciato alla mente il sonetto di Foscolo “In morte del fratello Giovanni”.
Quella poesia da ragazza mi sembrava esageratamente triste ma ora comprendo, e quanto, il potente significato di parlare col “tuo cenere muto” e di poter rendere “le ossa mie…al petto della madre mesta”: un luogo fisico dove tornare a piangere e a parlare al proprio caro.
E poi ci sono pure le cose che vanno bene quando hai lo spirito aperto a per saperle leggere e scovare o anche solo ad accoglierle come ti vengono regalate.
E così scopri anche che tua figlia è andata bene all’esame universitario in videochiamata.
Poi arriva lui, il Papa, l’uomo vestito di bianco, che ti regala un immagine prima e parole e gesti poi, di una potenza prorompente, che rimarranno nella storia.
“Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme”.
Insieme, perché nessuno si salva da solo.
Perché a Dio importa di noi.
Gli importa di me. Ma me lo aveva già detto e io questo me lo ripeto da sempre, tutti i giorni, altrimenti non riuscirei proprio a vivere. Ed è forse l’unico motivo che mi spinge a vivere così, ad essere così. L’unico: perché ho Lui, perché seguo Lui, alla meno peggio, alla bell’e meglio, come riesco, come solo Lui fino in fondo sa.
E quel grande uomo claudicante, umile e immenso, ci aiuta a tornare all’Essenziale, a trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso, a trovare il coraggio di aprirci, accoglienti e solidali.