Lettere di M. B. – Cronache di un medico contagiato da Covid-19 (13)

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22 e 23 marzo insieme perché sono stati un unicum

Scusate se mi faccio viva solo ora ma quella che era iniziata come una domenica serena, si è rivelata una domenica bestiale. Nel senso vero e proprio della parola: una domenica da bestie non da uomini.
Ero serena perché il mio giovane paziente stava migliorando ancora come pure l’anziana mamma di una mia amica infermiera e anche mio cugino di cinquant’anni. Arrivavano inoltre notizie positive sugli amici intubati nelle province lontane.
Mia cognata mi aveva chiesto un consiglio per il papà ancora giovane che presentava dal giorno prima febbre e nulla più.
Mi ero confrontata sull’andamento dei pazienti e sulle possibili terapie al telefono con un paio di colleghi e la mattinata era trascorsa innocua.
Nel pomeriggio dopo aver giocato tutti insieme in famiglia a Scotland Yard, ognuno si mette a fare ciò che più gli aggrada. Chi si vede un film, chi gioca sull’IPad, chi dorme, chi ascolta musica.
Io tento di ascoltare una meditazione sul Vangelo della domenica ma nel frattempo mi addormento.
Mentre stiamo cenando vengo a sapere che il nostro più caro amico di famiglia, di quelle amicizie lunghe e durature, fatte di tante cene interminabili, di vacanze insieme, di eventi culturali e di beneficienza da lui inventati e condivisi, non ce l’ha fatta: è morto, da solo, in ospedale.
E allora lì non riesco a trattenermi, scoppio a piangere, rotta, a pezzi, annientata.
Una persona cui inizi a voler bene quando hai 13 anni, che sa essere affettuosa e tenera e che riesce a fare da mediatore tra te e tuo papà, amorevole ma severo, che contagia con tanto entusiasmo e serenità la tua famiglia, che ti ricambierà affetto e attenzioni fino a ieri (le risme di fogli A5 per le ricette da lui regalate senza chiedere e portate personalmente in ambulatorio perché non mi poteva vedere con la taglierina in mano a tagliare gli A4), non può essere spazzata via così brutalmente.
E penso alla moglie, sola , debole anche lei ricoverata sempre per il covid in un altro nosocomio.
Piango, la notte è lunga.
Interrotta da messaggi e telefonate di mia cognata che dopo avermi interpellata in mattinata, aveva portato i farmaci al papà di soli 67 anni, per solita sintomatologia: febbre, prostrazione, inappetenza, senso di oppressione toracica. Lui abita in un paese di un’altra valle, sempre in provincia di Bergamo per cui si è poi fermata là dai genitori.
La saturazione non è brillante, oscilla tra gli 88 e i 92. E la febbre è veramente molto alta. Permane anche il senso di oppressione al petto.
Così,dopo aver visto che non accenna a migliorare, si decide di chiamare il 112.
All’arrivo dei soccorsi la saturazione nel frattempo è un filo migliorata, 92% e la febbre un pochino scesa per cui decidono di tenerlo a casa: l’unico posto disponibile nella notte dicono essere ad Agrate, su una barella, per ora in pronto soccorso. Consigliano di proseguire con la terapia impostata e di ricontattarli qualora si aggravasse.
Verso mattina è stabile: mantiene invariate saturazione, pressione arteriosa e frequenza cardiaca. La febbre risale, ma è normale.
E alle 8 ripartono le quotidiane telefonate: non ditemi che è in remissione, che non ci sono nuovi casi, non ditemi che sta morendo meno gente, non è affatto vero. Io quantomeno non ho proprio questa percezione.
Alle 16 sono 78 telefonate cui vanno aggiunte le 35 risposte via whatsapp.
Ma andare a sera ce ne sarà sicuramente un’altra ventina.
Un altro mio paziente di 52 anni è deceduto questa notte in ospedale a Bergamo: era stato ricoverato venerdì sera dopo febbre da un giorno.
Mi telefonano di nuovo dall’Ats: ennesima incaricata che non se nulla della mia situazione e da ciò che le hanno segnalato risulto malata: le ripeto come avevo già fatto ad un’altra dottoressa lunedì scorso, il tutto
e a quel punto conviene con me che non posso risultare tra i malati perché ho finora fatto il mio lavoro. Mi chiede se voglio fare il tampone che mi metterebbe il lista e io chiedo lei di dirmi se ha senso, dal momento che ormai io sono certa certissima di averlo contratto e debellato ma che mi comporto come se fossi una possibile fonte di contagio e quindi quelle rare volte che ho dei contatti sono bardata dalla testa ai piedi: ”eh si in effetti”.
Ieri è oggi finora giornata unica uggiosa, ma ora esce un debole raggio di sole e allora ne approfitto per uscire a prendere quel sole e una boccata d’aria. Mi ci vuole.