Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla III Domenica del Tempo di quaresima / A

Es 17, 3-7   Sal 94   Rm 5, 1-2.5-8   Gv 4, 5-42

Dopo le due domeniche di quaresima, presentate secondo uno schema fisso per tutti e tre gli anni liturgici (le tentazioni nel deserto e la trasfigurazione sul monte), dalla terza domenica ci vengono proposti i tre grandi quadri giovannei del percorso catecumenale: “l’acqua viva” (Gv 4); “il pane di vita” (Gv 6) e “la luce della vita” (Gv 8), che ci accompagneranno fino alla Pasqua di resurrezione.

Il primo grande quadro simbolico è l’incontro tra il Maestro e una donna della Samaria, paese di un popolo che, pur avendo una storia e una fede in gran parti comuni con quello dei Giudei, ne è attualmente separato ed ostile (Lc 9,51 ss.). In seguito alla caduta del regno di Israele nel 722 a.C., nelle città e nei villaggi della Samaria gli Assiri insediarono coloni di origine mesopotamica (2Re 17). La popolazione mista che ne derivò, pur aderendo al monoteismo e alla legge mosaica, praticò un certo sincretismo e col tempo si differenziò sotto vari aspetti dalla religione dei vicini Giudei, fina a costituire nel IV sec. a.C. su monte Garizim un tempio rivale rispetto a quello di Gerusalemme, distrutto successivamente dall’asmoneo Giovanni Ircano nel 128 a.C.

Il Messia nel suo passaggio dalla Samaria alla Giudea incontra una donna che è intenta ad attingere acqua, legata ad un passato moralmente distorto, personaggio che ha un valore più che individuale. Egli vive una visione religiosa vaga e non corretta; i suoi cinque mariti passati, infatti, non sono altro che i continui tradimenti all’alleanza con Adonai: «Ma come una moglie è infedele a suo marito, così voi, casa d’Israele, siete stati infedeli a me» (Ger 3,20); mentre il marito dovrebbe essere il Signore stesso, sposo di quest’alleanza: «Poiché tuo sposo è il tuo creatore» (Is 54,5).

Impressionata dal dialogo con Gesù che non la giudica, ma anzi le legge nel cuore la sua inquietudine, lascia la sua anfora presso il pozzo non attingendo più a quell’acqua, e si fa portatrice di un messaggio di salvezza. L’acqua che disseta, infatti, nella visione veterotestamentaria è la Parola di Dio (Is 55,1.10; Am 8,11), la Tôrâ (Sir 24,25), la Sapienza, la quale consiste nell’assimilare la Legge del Signore (Sir 15,3; Prv 13,14; 18,4; Bar 3,12): «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,14). Il Maestro, invece, qui presenta – analogamente a quanto si dirà del «pane della vita»: Gv 6,35 – un’acqua diversa anche dall’antica concezione, perché «chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Le due affermazioni non sono però in contrasto tra loro: l’AT intende mettere in risalto quanto la sapienza è buona e desiderabile; Gesù esalta la sublimità del dono, che rende superfluo ogni ulteriore ricerca. È la promessa dello Spirito Santo che è sempre accanto a Gesù perché «intimamente unita alla sua missione a ha rapporti con tutti coloro che sono in rapporto con Gesù. Nella sua opera di rivelazione egli ha una presenza misteriosa, richiamati in passi rari ma significativi, e dopo la sua partenza ha una funzione importante nella comunità dei discepoli» [G. Ghiberti, «Introduzione al vangelo secondo Giovanni», in Opera giovannea, G. Ghiberti e coll. (a cura di), Elledici, Torino 2003, 52-53].

Al centro del dialogo si pone la questione: «I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare» (Gv 4,20). Gesù risponde che ben presto tale controversia non avrebbe avuto alcun senso perché «quando la storia della salvezza avrà raggiunto il suo pieno sviluppo, tutti si renderanno conto che in tale storia il tempio non avrà più alcun valore» [B. Vawter, «Il vangelo secondo Giovanni», in Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1973, 1390]. Per la sua efficacia il culto dei credenti, infatti, dipende dalla glorificazione di Cristo; ma ciò è sempre possibile in virtù di questa stessa efficacia, per cui i giusti dell’AT furono salvati da quella stessa fede che unisce ora i cristiani a Dio: «E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,23-25).

Particolarmente poi il IV Vangelo afferma come, «Dio è spirito» (Gv 4,24a), riprendendo così l’espressione di Paolo: «Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente; ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita» (1Cor 15,45). “Spirito” nel senso biblico, infatti, non designa la natura di Dio ma la sua attività vivificante: Dio è spirito in quanto dona lo Spirito così come nel medesimo senso Dio è luce e amore (1Gv 1,5; 4,8). Ciò spiega il motivo e le modalità in cui il vero adoratore deve adorare Dio in «spirito e verità» (Gv 4,24b).

Il vangelo di questa domenica ci conferma come il Signore è la nostra sorgente di vita, ma anche come attraverso il dono dello Spirito Santo instaura con noi un definitivo patto nunziale: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Come nuove creature generate dal fonte battesimale possiamo allora finalmente adorare Dio attraverso Dio stesso in noi e per noi.

«Siamo stati esortati a cantare al Signore un cantico nuovo. L’uomo nuovo conosce il cantico nuovo. Il cantico è un fatto d’allegrezza e, se consideriamo la cosa con maggior diligenza, è un fatto d’amore, sicché chi sa amare la vita nuova sa cantare il cantico nuovo […]. Non c’è nessuno che non ami; quel che si domanda è che cosa ami. Non ci si esorta a non amare ma a scegliere quel che amiamo. Ma cosa potremo noi scegliere se prima non siamo stati scelti noi stessi? In effetti, se non siamo stati prima amati, non possiamo nemmeno amare […]. Siccome lo Spirito Santo è Dio, noi amiamo Dio attraverso Dio. Effettivamente, se ho potuto affermare che l’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori attraverso l’azione dello Spirito Santo che ci è stato donato, ne segue che, essendo lo Spirito Santo Dio, noi non possiamo amare Dio se non per mezzo dello Spirito Santo, cioè non possiamo amare Dio se non attraverso Dio»: Agostino, Serm., 34, 1-5, in «Opera omnia di sant’Agostino», vol. XXIX (tr. it. di P. Bellini – F. Criciani – V. Tarulli), NBA – Città Nuova, Roma 1979.

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)