Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla V Domenica del Tempo ordinario / A

Is 58, 7-10  ⌘  Sal 111  ⌘  1Cor 2, 1-5  ⌘  Mt 5, 13-16

Il primo εὐαγγέλιον redatto «per primo», secondo Origene [rip. da Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica VI, 25,4, F. Migliore (a cura di), Città Nuova, Roma 2001, 46], presumibilmente dopo il 70 ad Antiochia, nell’alta Siria, da «un giudeo cristiano della diaspora, che scrive per una Chiesa impegnata in un confronto serrato con l’ebraismo rinato negli ultimi decenni del secolo» [M. Làconi, «I vangeli sinottici nella chiesa delle origini», in Vangeli sinottici e atti degli apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Logos vol. 5, Elledici, Torino 20022, 144], si compone di cinque grandi discorsi – della montagna (cc. 5-7), missionario (c. 10), in parabole (c. 13), ecclesiale (c. 18), escatologico (cc. 24-25) – connessi da numerosi paralleli con gli altri Sinottici che «rappresentano tuttavia qualcosa di eccezionale ed esemplare per la loro vigorosa struttura, l’armoniosa tematica di catechesi ecclesiale, e il costante vicendevole rapporto» [M. Làconi, «I discorsi di Gesù nel vangelo di Matteo», in Vangeli sinottici e atti degli apostoli, M. Làconi e Coll. (a cura di), Logos vol. 5, Elledici, Torino 20022, 217]. Il loro compito generale consiste nel tracciare le principali linee di comportamento del discepolo e della vita ecclesiale nel clima della signoria salvifica di Dio, ognuno in una sua precisa prospettiva.

La quarta domenica del tempo ordinario, dopo l’avvio «nel territorio di Zàbulon e di Nèftali» (Mt 4,13) del ministero pubblico di Gesù, apre il primo discorso, detto della montagna, con la proclamazione delle beatitudini (Mt 5,1-12). Segue, in questa quinta domenica, l’inizio delle indicazioni concrete e nuove per giungere al Regno di Dio.

Riprendendo il tema della luce, che è stato il leitmotiv dall’inizio dell’anno liturgico, il Maestro richiama il discepolo ad essere «la luce del mondo» (Mt 5,14) come lui lo è per i suoi discepoli che camminavano nelle tenebre e videro una grande luce, «su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1b), e che sulla montagna tiene il discorso che è di fatto luce per il mondo. Così essi vengono investiti di una responsabilità, essere a loro volta luce per gli altri.

Oltre l’immagine della luce, Matteo adopera quella del sale, simbolo del sapore. Per il credente significa essere capaci di trasmettere il gusto della vita, dare sapore alle realtà terrene, in piccole quantità (come il lievito) ma poi sparire nel mondo – come il sale che nella pietanza sparisce ma gli da il giusto sapore. Esso, però, mantiene anche il significato di conservare il cibo, come in un ambiente di pescatori come quello del lago di Galilea. San Giovanni Crisostomo, come i Padri della Chiesa, infatti, insiste su questa rappresentazione in cui i cristiani sono visti come il sale della terra in quanto possono conservare la salvezza operata da Cristo, che è la sapienza e la luce, pur essendo lampade che trasmettono la luce di Cristo: «Il sale non salva ciò che è putrefatto. Gli apostoli non hanno fatto questo. Ma prima Dio rinnovava i cuori e li liberava dalla corruzione, poi li affidava agli apostoli, allora essi diventavano veramente “il sale della terra” mantenendo e conservando gli uomini nella nuova vita ricevuta dal Signore. È opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma impedire di ricadere nel precedente stato di miseria spetta alla sollecitudine e agli sforzi degli apostoli» [Omelie sul vangelo di Matteo, om. 16, 6-7: PG 57, 231-232].

L’essere luce per gli altri non è comunque una novità di Matteo, ma trova la sua radice nell’ultima parte del rotolo del Terzo Isaia, risalente al ritorno d’Israele dall’esilio in Babilonia intorno al 520-515 a.C. Esso riguarda la corretta interpretazione del digiuno eseguito non come cieco obbligo, ma con sapienza nel «dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo» (Is 58,7) che trasforma il credente in luce che «sorgerà come l’aurora» (Is 58,8).

Diventare luce, quindi, è essere come il Signore Gesù che è «la luce che ha creato quella che vediamo. Amiamola, questa luce, aneliamo alla sua comprensione, siamone assetati, affinché, sotto la sua guida, possiamo finalmente pervenire ad essa e vivere in essa, così da non morire mai più» [Agostino, Commento al vangelo di san Giovanni, om. 34, 3: PL 35]. Assumere, così, nella propria vita lo stile stesso del Signore che Matteo ci indica proprio nel suo primo grande discorso “della montagna”, ed «ogni agire e patire deve fare simili a Dio, il quale è perfetto nella sua pazienza e misericordia. Chi è così simile a Dio può essere chiamato “suo figlio”» [K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2014, 30].

«Nessuno accende una lucerna e la pone sotto il moggio, ma sul candelabro, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa (Mt 5,15). Questa casa è il mondo intero; l’accensione della lucerna è l’incarnazione del Verbo; il candelabro è il legno della croce; la lucerna che splende sul candelabro è Cristo che pende sulla croce»: Quodvultdeus, dal trattato Contro cinque eresie, 7, 23: CCL 60, 296).

 

Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)