Blog – L’incanto del Natale
Vorrei provare ad organizzare questa meditazione di Natale attorno a un’unica idea. Procederemo con ordine: dapprima sosteremo brevemente sul concetto che ci servirà da punto di vista, e poi faremo uno svolgimento, come quando facevamo i temini a scuola: utilizzeremo il nostro punto di vista per guardare attraverso di esso la realtà della nostra fede.
Ecco il punto di vista. Natale – mi sembra – è fatto di due elementi, di due fili, di un soggetto e di un complemento. Il soggetto è il Bambino e il complemento è il luogo dove nasce il bimbo. Il bambino (soggetto) nasce (predicato verbale) a Betlemme (complemento, è il luogo). Nella mangiatoia (complemento, è il luogo). Tra un bue e un asinello (è il luogo). Tra le braccia di Maria. Nel cuore di
Giuseppe. Sotto gli occhi dei Magi e dei pastori. Gli occhi delle stelle, il cuore della notte, il silenzio della notte (sono il luogo).
Nell’albergo il bambino non nasce. L’albergo dove non c’era posto per loro (Lc 2,7) è il non luogo, il non complemento, il luogo dove non nasce. Nei cuori degli uomini che stavano nell’albergo non c’era luogo. Non c’è luogo tra gli uomini, le tenebre del cuore degli uomini non l’hanno accolto, non sono il Suo luogo (Gv 1,11). Nel nostro punto di vista quindi soggetto è il Bambino e complemento è il luogo.
A questo punto si potrebbe pensare che il predicato sia nasce: il Bambino nasce a Betlemme. Ma non è così, o per lo meno non è esattamente così. Il concetto, il verbo, la parola, attorno a cui scelgo di organizzare la nostra meditazione è nutriente. Che nutre, che si nutre, sia nel senso di “che nutre sé stesso”, sia nel senso di “che viene nutrito”. Attivo e passivo, andata e ritorno, su e giù. Il punto di vista non è che il luogo accoglie il bimbo, ma che il bimbo trasforma il dove in un luogo, in un posto accogliente, perché il bambino ha con il posto un rapporto nutriente. Questo è il punto di vista.
Svolgimento. La nascita è solo un momento, un caso particolare, del più ampio fenomeno della nutrizione. Il bambino viene concepito e non appena concettato già subito si nutre, e nutre. Sembra che il bimbo prenda vita dalla madre, che si nutra attraverso di essa, che le sostanze necessarie per vivere che erano della madre vengano date al figlio e dal figlio vengono prese. Quel rapporto di nutrizione al seno. Di quello sguardo, della boccuccia, del corpicino, delle manine (quelle tenere manine), nell’istante stesso, nel momento stesso della prima nutrizione, e di quelle successive. Vorrei che guardassimo, che ci innamorassimo, di come i bambini sono ben disposti. Giustamente ben disposti, aperti, accoglienti, facilmente e docilmente plasmabili, così attentamente concavi rispetto ad una madre tanto attentamente convessa, così pregna di convessità. Capaci di far posto dentro di sé, di ascoltare le ragioni di quella maternità, di quella mammalità loro rivolta. Più ancora che capaci: gioiosamente capaci, felicemente ben disposti. E’ tutta una festa, una bel gioco. Sembra proprio che ridano. Che si aprano in sorriso, che tutta la felicità e i raggi di gioia del mondo, si siano dati appuntamento in quel luogo, a quell’ora, sulle tenere labbra del bambino all’ora di quel bacio scandito ad ore precise. Ai ritmi della fame, della sazietà, della vita. E lo steso poi accadrà con la voce e gli occhi del padre. E quindi del lettino, dei fratelli e delle sorelle, della nonna. Della sua stanzetta, del pavimento e delle cadute sul pavimento. Degli amichetti, dell’asilo. E così via. Credo si capisca dove voglio arrivare.
Guardiamo ora le cose dal punto di vista opposto, guardiamole nella direzione che va dal bambino verso la madre. Sto per sostenere una cosa non banale. Sto per sostenere – lo sostengo già – che il bambino nutre la madre. Non parlo del bambino grande, già uomo, già adulto, che mantiene la vecchia in un pensionato per vecchi. Non voglio neppure pensare a quella mostruosità, a quel tumore maligno figlio di una società che non ha più figli, che non ha più famiglia, che non ha più nonni, che non ha più arte e che ha musei (non ha più arte ma ha musei perché l’arte ha bisogno di case dove si vive, non di musei dove si va in vacanza) e che hai gli ospizi per vecchi (che sono i musei dei nonni). Non sto pensando a quando il bambino è grande e la mamma è nonna. Non sarebbe una cosa nuova: è la stessa madre di prima che invecchiando diviene bambina, è lo stesso bambino di prima che invecchiando diviene genitore). Voglio invece sostenere che il bambino, in quanto bambino, nutre la madre; che la madre, in quanto madre, è nutrita dal figlio che porta in seno, in braccio, attaccato alla gonna, che piange la prima delusione amorosa, che si sposa, che è disoccupato, si ammala, muore. A ben guardare, ciò che sto sostenendo è qualcosa che sappiamo tutti benissimo, perché viviamo di essa. Dico che il bimbo è la speranza della madre. E’ detto tutto. Ho detto tutto. Perché la speranza è tutto. Sembra che sia la madre a sostenere per mano il bambino che incespica e sta per cadere, ed invece – lo sappiamo benissimo – è il bimbo che sostiene, che nutre. Sembra la madre a asciugare le lacrime del bambino, ma la realtà è tutt’altra: è il bambino ad asciugare le lacrime della madre; in lui spera quando è stanca, e piange, e subisce torto, è tradita. Va avanti. Incede dolcemente (fortemente) per lui, il figlio. Che non è solo un figlio della carne (quella è solo una tappa) anzi se fosse solo figlio della carne (tremendamente a volte) non giungerebbe neppure a essere figlio vero. Il vero figlio è quello dell’anima. Donna ecco tuo figlio (Gv 19,26). La maternità spirituale è la vera maternità , e a volte comprende anche quella fisica.
Sara sdentata sorride per Isacco (ed anche Abramo). Quella tenerezza di germoglio, di bambino, è la cosa rude e robusta. E’ il punto d’appoggio su cui si regge il mondo.
Per noi però (per noi adulti, per noi grandi) (per noi, per noi padri e madri, fisicamente e spiritualmente padri e madri) (per noi che siamo potenzialmente capaci di nutrirci dei bambini) c’è, si pone, un grosso problema. Un enorme problema. Non sappiamo più ascoltare. Abbiamo il timpano di cemento armato. Quando eravamo piccoli eravamo capaci d’ascoltare. Ma crescendo ci stanchiamo, ascoltiamo sempre meno. Alla fine, divenuti adulti, non si ascolta più (ci si stanca d’essere pazienti, ci si stanca di soffrire). Fateci caso. Questi giorni di festa offrono spesso l’opportunità di questa scoperta. Durante le vacanze di Natale accade che famiglie che durante l’anno sono disperse in mille rivoli, si incontrino. Ci sono figli nuovi: bambini di due anni o forse anche tre. Bellissimi bimbi, buffi, impettiti come paggi, limpidi come angeli. Che parlano (è allora che scopriamo). Quando una parola di bambino scoppia in mezzo a noi adulti, noi alziamo grida, scoppiamo di ammirazione sincera e profonda e diciamo, in ogni modo diciamo con gli occhi, con la voce, ridiamo fra noi e diciamo a voce alta a tavola: è buona questa, la ricorderò. Giuriamo di farne parte ai nostri amici, di dirla a tutti, tanto siamo pieni di orgoglio per i nostri bambini. Crediamo di poterla riferire facilmente. E quando si incontrano poi quegli amici, quelli che si erano lasciati prima di Natale augurando loro buone feste; e siamo lì lì per raccontare le nostre vacanze (le nostre famiglie, le nostre gioie) ed arriviamo al punto, e stiamo per raccontare quella parola di bambino, quella parola esplosa; quando siamo tutti accesi pronti per riferirla, ci accorgiamo di non saperla più. Ci scusiamo, sorridiamo. E non la sappiamo più. Non riusciamo più a ritrovarla. E’ svanita nella memoria. E’ un’acqua troppo pura che è sfuggita alle nostre mani concave, alla nostra memoria insozzata. Ci rendiamo conto benissimo che era in un certo luogo della nostra mente, che era in quella regione, che teneva quel posto, che aveva un certo volume. E ci rimane la netta nostalgia di un amore che se n’è partito, è partito e non tornerà mai più. D’altronde noi eravamo perfettamente indegni che restasse; per questo restiamo a bocca aperta e sappiamo perfettamente di essere incapaci di ritrovarla, perché essa è di tutt’altra qualità d’anima, è della stessa qualità della nostra anima antica, della nostra anima bambina. E ci rendiamo conto poi, quando siamo soli la sera e gli ospiti sono andati via e i bimbi sono a letto, e siamo infine soli seduti in poltrona, che quello era un sussulto della nostra anima antica, un attimo di saluto della nostra vecchia anima a Dio che passava.
La nostra anima bambina non c’è più perché essere aperti, essere bambini, andare innocentemente ingenuamente vicino, lasciare che qualsiasi cosa che ci avvicini possa avvicinarsi, giungerci vicino, addirittura dentro, rende pericoloso al bambino il vivere. Per questo i bambini si fanno male (la vita ha i suoi artigli, i suoi spigoli), per questo i bambini imparano. A diffidare. A non essere ingenui (a non essere bambini). A frapporre fra sé e le cose (gli altri, la realtà) un bel materasso di pensieri (di ceppi e di impicci). A imbozzolare la realtà in pregiudizi. Addirittura, noi diffidiamo di chi non si comporta così. Diffidiamo dei bambini (non ci nutrono più).
E’ a questo punto che nasce un problema di pazienza, di saper patire, di saper perdurare nel patimento. E’ facile (naturale) nutrirsi del sangue della madre, del latte della madre; più difficile, sapersi nutrire del primo giorno di scuola (del primo zainetto, del primo sgarbo del compagno di classe, della prima incomprensione del maestro). Si tratta di saper digerire, di saper distinguere il male dal bene. Nutrirsi del bene ed eliminare il male (anche il bambino piccolo sporca i pannolini). E essere ben disposti, ben preparati a imparare da tutti, a nutrirsi di tutti, a sperare da tutti. Conoscere il male, senza imparare dal male, senza diventare cattivi (il medico che cura l’Aids per conoscere l’Aids non deve ammalarsi di Aids). Non sapere già tutto il bene che c’è nelle persone. Ogni persona è un mistero.
A ben guardare quello che non si sopporta è il dolore di fronte al mistero (ogni vita è un mistero, ogni bambino è un mistero, il mistero di quella lotta tra bene e male che abbiamo nel cuore) (figurarsi se di mezzo c’è il Bambino). Ci si scopre, ci si sente, inadeguati, incapaci, sproporzionati, di fronte a quel Dio che si fa carne. Poveri.
E’ allora che si capisce che per essere bambini, per saper far posto in sé a quel bambino che ci guarda, per sapersi far nutrire da lui (per far sì che sia per noi genitore) bisogna aver pazienza. Pazientemente lasciarsi impregnare da quella consapevolezza di indegnità, incapacità, inadeguatezza. E’ così, si è incapaci. Ciò non di meno bisogna resistere, sostare, non affrettarsi, rimanere tranquilli sotto quello sguardo bambino che mette alla luce del sole quanto siamo adulti (non ingenui, incapaci di ascoltare, con sciami di pensieri che ronzano nella testa, quella zucca vuota). Pazienti di fronte alla crescente percezione della nostra indegnità, della nostra povertà. Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno. Proprio quella percezione è frutto della grazia, è la nostra percezione della mano di Dio che ci svuota per far spazio, per far posto. E ciò che è più bello è che il Bambino, con il suo vivere, non ci accusa affatto (è il demonio che accusa). Proprio il Bambino è forza che fa vivere. Essere poveri (scoprirsi inadeguati et coetera) è conditio sine qua non perché il bambino sia per noi nutrimento. Compiere questo lavoro di resistenza, resistere all’avanzante fatica del vivere, il peso della vita, comporta, paradossalmente virilità. “L’infanzia spirituale esige la sottomissione dell’intelletto, più difficile della sottomissione della volontà. Per assoggettare l’intelletto è necessario, oltre la grazia di Dio, un continuo esercizio della volontà a dire no, come dice no alla carne, una volta e un’altra e sempre. E si verifica di conseguenza, il paradosso per cui chi segue il piccolo cammino d’infanzia deve, per farsi bambino, irrobustire e virilizzare la volontà” (Cammino 856).
Il Bambino ha bisogno di bambini attorno a sé. E’ chiaro che un bambino appena nasce ha bisogna della madre. E’ chiaro che noi, per essere bambini, dobbiamo scoprire in generale, di avere bisogno di nutrirci dell’infanzia; in particolare, di avere bisogno di quel Bambino. Questo rapporto inizia con la scoperta della nostra indegnità.
Si pensi a Giuseppe. Che era il capo famiglia, il papà che pensa alla famiglia, al luogo dove abitare, dove nascere. Che fa di tutto perché si nasca in casa, si viva in casa (quando i Magi trovano Gesù lo trovano in casa, non nella mangiatoia – cfr Mt 2,11). Si pensi alla sconfitta di quel pover’uomo (che non è affatto un pover’uomo, per quel Figlio che ha e quella sposa che ha), a Giuseppe cui non riesce di essere un buon padre all’altezza della situazione. Fuori posto (sproporzionato insomma). E’ proprio quel tipo di sofferenza di cui ci si stanca. Quel tipo di povertà (la povertà insomma, non facciamola complicata) di cui abbiamo bisogno per accogliere il Bambino (per essere bambini). Far posto significa essere poveri. Giuseppe sperimenta un disagio, un’insufficienza, e la accetta, non cade nella tentazione di riempire quel vuoto (quella vacuità idonea a divenire luogo, posto) con qualcosa che non sia il Bambino. Riconosce che quel dolore, quella sofferenza, è proprio Dio a crearla. E’ Dio che fa posto. (Era il Padre di Gesù a far sì che tutte le prudenze di Giuseppe finissero inutili).
E’ interessante notare che chi tradisce Gesù è proprio chi non è capace di conservare il vuoto dentro di sé fatto da Dio; non è capace di attendere che sia Dio stesso a riempirlo. Ordinariamente è con il pieno che si riempie il vuoto, con l’agio il disagio. Chi ha tradito Gesù lo ha fatto per denaro. Giuda ha tradito per denaro. Impossibile capire Giuda, se si decide di sottovalutare Giovanni (Giuda era ladro, rubava quello che c’era nella cassa comune – cfr Gv 12,6); se si decide che non si possa tradire Cristo per soldi. Impossibile capire Giuda se non si accetta di essere tutti dei giuda attaccati alla terra. Quella voglia di denaro, di soldi in tasca, di sicurezza, di piedi per terra, che è la radice di tutti i mali. Se si decide che si può capire il tradimento per superbia, per passione, per amore, per odio, per piacere, per carne, per potere, per politica, per debole, per vigliacco, ma non per soldi. Per trenta monete. (Sia pure d’argento). Per denaro. E’ proprio il tipo di spreco che Gesù ama, quello che Giuda non sopporta. Sono proprio i Suoi poveri che non sopporta. Quel loro fidarsi di quello che hanno (quel fidarsi di una mangiatoia, di un bue e di un asinello) (quel fidarsi delle braccia di Sua Madre e dei panni di Sua Madre). Il loro lavorare di giorno e il loro dormire di notte. Come gli uccelli del cielo e i gigli del campo. Che di notte non contano quanto manca al preventivo, e non si rigirano nel letto. Figli che pensano che il Padre sappia fare i conti meglio dei figli. E’ quel ridotto, quell’asilo, quella tranquillità. Quell’essere inalterabili sia che si è poveri sia che si è ricchi. Diciamola tutta: quello che Giuda proprio non sopporta è che i poveri di Gesù siano poveri anche quando sono ricchi. Che, neppure quando sono ricchi (Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo) cadano nella tentazione della bramosia, nel laccio insensato e funesto. Che essere ricchi, per loro, sia lo stesso che essere poveri. Che si fidino del lavoro ben fatto, onesto, del non avere vizi. (Proprio come Giuseppe artigiano. Che sta per fare l’emigrante in Egitto, in Australia. Che sta per mantenere la sua famiglia con il suo lavoro d’artigiano. Che sta per mantenere in paese straniero la sua famiglia, con un lavoro che si basa sul prestigio personale, sulla clientela, sulla stima che ci contorna lentamente anno dopo anno. Artigiano insomma. In paese straniero) (Una cosa impossibile). Poveri che non abbiano quell’usura nel cuore, quel ventre sterile. Nessun bisogno di scorciatoie. Uguale essere sazi che essere affamati, abbondare che mancare. Tutt’altro rispetto a Giuda che invece, che sia ricco o povero, che possegga o no, che abbia o che non abbia, è comunque insaziato, insaziabile. Subito ricalcolare, rimisurare, investire di nuovo.
Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra, dice Dio (Col 3,5). E’ proprio l’idea di vivere sulla terra vivendo in cielo, che Giuda non sopporta. Di essere pellegrini senza casa, senza dimora. Non ho casa, non si può camminare sulle acque per tutta la vita (pensa Giuda). E’ una pretesa sbagliata, disumana (pensa Giuda). Dicono che sia avaro (si tormenta Giuda). Non sanno cos’è l’avarizia. Non hanno mai riflettuto sul fatto che gli avari, da che mondo è mondo, siano vecchi. Moribondi. Gli avari sono morituri, moribondi, persone che sentono la vita sfuggire. Naufraghi che vogliono aggrapparsi ad un relitto. Ci chiamano avari. Perché ci attacchiamo a un fracido legno che sembra galleggiare. Abbiamo solo bisogno di sentire la terra sotto i piedi perché abbiamo il mal di mare, dico io. La vita ci dà il mal di mare. (Si può condannare un persona solo perché sta per affogare?).
E’ proprio di questa povertà abbiamo quella di cui abbiamo bisogno per far posto al Bambino. Faremmo bene ad essere poveri di quella ricchezza di cui andiamo cianciando. A esserne ben carenti. Invece, quanto più pecchiamo, tanto più diciamo che stiamo crescendo, che stiamo imparando. Che la vita è una scuola.
La conosco quella scuola, dice Dio. Penso sia per disimparare quel poco che si sa. Vi si impara tutti i giorni. La conosco questa vita: è un’usura perpetua, un costante, un crescente avvizzimento. Si scende sempre. Beato chi può restare qual è il giorno della sua nascita, dice Dio. Ci si riempie d’esperienza, diciamo. Guadagno esperienza; imparo a vivere; di giorno in giorno accumulo esperienza. Singolare tesoro. Tesoro di vuoto e di carestia. Tesoro di rughe e di inquietudini. Tesoro degli anni magri. Accresce il tesoro delle pene e delle miserie. E i sacchi delle preoccupazioni e delle piccinerie. Acquisto esperienza, dicevi negli ultimi tempi; accresco la mia esperienza. Vai sempre scendendo, dice Dio, vai sempre diminuendo, vai sempre perdendo. Vai sempre in discesa. Vai sempre avvizzendo e riempiendoti di rughe ed invecchiando. Ed andando per quella strada non risalirai mai il pendio. Quella che tu chiami esperienza, la mia esperienza, io la chiamo la dispersione, la diminuzione, la decrescenza perpetua, la perdita di speranza. La dispersione pretenziosa.
La perdita dell’innocenza.
Quindi, il Bambino ha bisogno di bambini. Chi legge il Vangelo non può non notare l’insistenza tassativa: in Cielo entra solo chi è come Gesù, e Gesù è un bambino. Le Beatitudini sono l’autoritratto di Gesù (che è il Bambino), ed esse iniziano con la beatitudine dei poveri, dei “poveri di spirito”, come precisa Matteo, ossia degli umili. Quell’inadeguatezza, sproporzione, et coetera è proprio l’umiltà (imparate da me che sono mite e umile di cuore. Che sono Bambino). E l’umiltà (sorpresa!) ha proprio a che fare con il nutrimento. La persona umile è esattamente la persona che sa trarre nutrimento, dalle umiliazione, dalle sue inadeguatezze.
Riflettiamo (ho quasi finito!). Gesù sceglie la parole humus. Humus, si dice, vuol dire terra. Non è propriamente vero. Humus vuol dire humus: non è polvere, terra sterile. L’humus è quella materia organica che rende feconda la terra. E’ il risultato di quell’insieme di processi. Ciò che fa sì che ossa, muscoli, sangue, foglie, sterco (umiliazioni, errori, peccati), mandibole di cervi volanti, gusci di lumaca con le rispettive antenne, e zoccoli di bovino con denti d’equino, e dura corteccia, e ceppi; ciò che fa sì insomma che ogni cadavere di morto divenga leggero e poroso. Che lo fa soffice e permeabile all’acque all’aria e al più lieve sospiro. Che lo rende bruno, così che trattenga il calore solare e lo faccia caldo, e che lentissimamente lieviti e fermenti, e lo renda capace di sciogliere in sé sali minerali sennò impossibili per le piante da assimilare. Quell’organico processo che secerne acidi preziosi per le piante, cosicché esse non trovano più sabbia o pietra da digerire ma tenerezza che fa crescere. Nutrimento, nutrimento.
Ebbene. Ebbene. (Si presti ora particolare attenzione).
Ebbene: cinque centimetri di humus si formano in mille anni. Anno più, anno meno.
Questa è la scoperta mille anni. Per divenire umili, per divenire bambini (piccoli che non sanno camminare) ci vogliono mille anni. Tutta una vita insomma.
Ecco Chi è il Bambino. E’ colui che sa rendere nutriente, utile, tutto il mondo rovinato dl peccato. Lo redime. Sa gioire di noi (la mia gioia è vivere con i figli dell’uomo). E noi in Lui, rendiamo nutrienti, belle, essenziali alla nostra vita tutte le cose.
Ci possiamo meravigliare che la Madre dica di essere stata scelta per la sua umiltà?
Tratto da Studi Cattolici n. 418- Dicembre 1995 n.v.