Alberto Gil – Retorica e Università: due sorelle inseparabili (Lectio inauguralis)
Nell’anno 2015 fu pubblicato presso l’Università della Santa Croce un libro sul perdono come risultato di un bel lavoro interdisciplinare (1). Il mio contributo concerneva la retorica, ovvero la questione se possiamo distinguere una “bella forma” da una “brutta forma”, nel modo di offrire il dono del perdono. Volevo intitolare l’articolo “Retorica del perdono”. E qui si presentò un problema nei seguenti termini: “Ma se è ‘retorica’ del perdono non è perdono…” Alla fine, il saggio ricevette il titolo “Il perdono ha una retorica speciale?”.
È stato sempre così? Se qualcosa brilla per la sua forza retorica, diminuisce il suo valore in termini di verità? Se la verità è messa in pericolo, allora non c’è posto per la retorica all’università, in accademia, dove cerchiamo con passione la verità. Perciò, retorica e università hanno una storia fatta d’incontri e di separazioni, di amicizia e di sospetto reciproco, ma – e questa è la mia tesi – sono due sorelle inseparabili.
Qui non posso passare in rassegna tutta la storia del rapporto tra retorica e università; tuttavia vorrei ricordare alcuni momenti della sua evoluzione, in coincidenza dei quali si vede ciò che spesso capita tra delle sorelle: si vogliono bene, a volte si danno reciprocamente fastidio, altre volte ancora addirittura si picchiano… Ma la domanda che ora ci porremo è: c’è qualcosa di essenziale, un forte sostrato che unisce queste discipline e le rende inseparabili?
Per rispondere all’interrogativo, percorreremo una strada a tre tappe:
- Breve storia del rapporto tra retorica e accademia
- Ricerca del legame profondo tra retorica e università
- Conseguenze della fraternità tra retorica e università.
1. Breve storia del rapporto tra retorica e accademia
Cicerone, nel suo De Oratore III (3,61) traccia una “diagnosi” sul conflitto tra il bel parlare e il bel pensare:
(Questa separazione davvero assurda, biasimevole, di lingua, per dir così, e di cuore si è sempre mantenuta da allora: per questa ragione alcuni ci hanno insegnato a pensar bene, altri a ben parlare.)
Questa spaccatura del cuore e della lingua – discidium cordis atque oris – è per Cicerone assurda, inutile e biasimevole, come se parlare bene fosse la prova che non si sa molto o che si vuole ingannare. Ma come è nata questa separazione tra sapere e parlare?
Già nei tempi omerici, la formazione per l’aristocrazia greca era Enkyklios Paideia: cioè una buona educazione, veniva unita ad un grande sapere. All’inizio della cultura greca l’espressione di questa unione si esprimeva con la parola composta Kalokagathia, che viene dalla fusione di kalós (bello) e agathós (buono), che poteva riferirsi a realtà diverse: buon soldato, bello sportivo… Il sapere aveva come base tanto la scienza quanto la poesia e così il sapiente era in grado di portare avanti diversi compiti. Di Sofocle sappiamo per esempio che non solo era autore di tragedie, ma che diventò anche stratega e addirittura sacerdote del suo culto pagano.
Con l’emergere della figura del cittadino libero, già nel V secolo a.C., per il popolo si configura l’opportunità di integrare il sapere enciclopedico con l’arte oratoria. Quello che per Esiodo nell’VIII secolo a.C. era un dono degli dei, per l’aristocrazia diventò democratico, sebbene appannaggio di quelli che possedevano la tecnica del ben parlare. E così sorsero maestri di retorica – i famosi Sofisti, come Protagora o Gorgia – che aiutavano ad avere successo non solo nelle cause giuridiche, ma anche nell’assemblea nazionale, nell’agora, dove l’eloquenza aveva un ruolo centrale per coloro che intendevano convincere l’uditorio.
Il problema? La verità non era l’elemento più importante, lo era invece l’eikos, il probabile o il verosimile. Non stupisce quindi che i primi grandi filosofi – amatori della verità – dichiarassero guerra a questi Sofisti. Socrate scredita la Retorica nei Dialoghi di Platone – dove si tratta un poco di tutto – definendola arte culinaria (Gorgia 462d-e; 500b), ma è nel Sofistes (233d-236a) che appare il rimprovero più forte: i Sofisti sono maghi, i quali danno a intendere di voler imitare la realtà, e invece la inventano oppure la costruiscono a seconda dei propri interessi. Ci mostrano non l’immagine, ma il simulacro della realtà.
E così, con Platone, si avvia una prima relazione tra retorica e università non particolarmente amichevole. La prima università si chiamava Accademia, perché le sue attività ebbero inizio nel boschetto dedicato all’eroe Akademos, ma aveva già le caratteristiche dell’università come tale: passione per la ricerca della verità, per quello che veramente è, e senso della comunità (poiché insieme agli altri si trova più facilmente la verità). Tuttavia, questa formazione accademica non era pensata per essere racchiusa in una torre d’avorio; con la Politiké Episteme il discepolo di Platone doveva assumere responsabilità per la Polis. Platone sapeva che per la vita nella società era indispensabile una buona capacità di comunicazione, una buona retorica (2). Lui stesso però non poteva dare lezioni di oratoria nella sua Accademia. Infatti, scrisse nel suo Sofistes (236d): “Così chiunque non conosce la verità, ma insegue solo le opinioni, mi sembra che porterà ad una dottrina della retorica ridicola e senza arte”.
Come non pensare qui alle Fake News o a tanti aspetti della postverità?(3) La retorica, però, era imprescindibile. Platone lo sapeva. Il suo insegnamento fu ripreso e sviluppato dal discepolo e assistente Aristotele, conosciuto per la serietà con cui ricercava la verità. Aristotele pubblicò già all’interno della sua Accademia – il Peripatos – uno degli scritti più importanti sull’oratoria, consistente nei tre libri Peri Rhetorikes, in cui mostrava la parentela tra retorica e logica. Parallelamente, Isocrate, un discepolo del Sofista Gorgia, fondò una scuola, nella quale retorica e filosofia si trovavano sullo stesso livello e vi si insegnavano l’arte del ben parlare e del ben pensare. Questo segna l’inizio di una bella amicizia tra retorica e accademia.
Ma per l’origine dell’università, più o meno come la conosciamo oggi, dobbiamo aspettare il Medioevo. Eppure, all’epoca, sebbene i presupposti fossero buoni, l’ambiente l’universitario non era edificante, dato il modo di vivere degli accademici. Vediamo alcuni aspetti tratti dall’interessante libro di Léo Moulin, La vita degli studenti nel medioevo (trad. it. Jaca Book, Milano 1992):
La normativa era esigente. Gli studenti conoscevano le sei opera scholarium, cioè: “levarsi di buon mattino, vestirsi, pettinarsi, lavarsi le mani, recitare le preghiere e andare con gioia a scuola.” Lo studente è “impegnato, studioso, obbediente, casto e serio. Non gioca a scacchi e non fa sport” (pp. 24-25).
Ma la realtà parlava un’altra lingua: “A Parigi, secondo Giacomo di Vitry (1180-1240), i tedeschi sono detti ladri e lenoni, gli inglesi ubriaconi e codardi, i francesi (d’Ile-de-France) superbi ed effeminati, i bretoni volubili e indecisi, quelli di Poitiers traditori e ‘cortigiani della fortuna’, i borgognoni grossolani e sciocchi, i lombardi avari e maliziosi, i romani sediziosi e violenti, i siciliani tirannici e crudeli, i normanni fatui e orgogliosi, i fiamminghi prodighi ed epuloni, i brabantini incendiari e ladri” (pp. 118-119).
Ma erano soltanto gli studenti ad essere così? No, i professori non erano da meno. Léo Moulin riporta le intemperanze di certi maestri: “L’università di Cracovia denuncia il vizio di ubriacarsi di certi professori (“detestabile vitium ebrietatis”), in occasione di uscite notturne (“occasione nocturnae vagationis”), accompagnate da schiamazzi che disturbano gli abitanti della città (“inquietationis hominum”). Il maestro che si comporta in tal modo perderà il suo salario (“suspenditur a salario et lectura”). Se persevera, ogni possibilità di carriera (“ascensus”) gli sarà preclusa. Si può arrivare fino alla scomunica” (p. 161).
In questo contesto venne emanata la famosa Bolla Papale Parens scientiarum di Gregorio IX (1231), la cosiddetta Magna Charta dell’Università di Parigi. Il motivo della Bolla però fu il seguente: nel 1229 a Parigi, durante la stagione carnevalesca, il bere selvaggio e un pesante pestaggio portarono a violenti litigi tra degli studenti e dei soldati del podestà. Ciò provocò gravi attacchi agli alloggi degli studenti, la detenzione e il maltrattamento del personale docente. Questi fatti, visti come espliciti attacchi all’università, portarono allo sciopero e all’emigrazione dei docenti in altre università. Nella Bolla Pontificia, il Papa conferiva all’università ampi poteri di autoamministrazione con diritto societario, cosicché la Bolla venne intesa come modello per gli statuti istitutivi dell’università. Ma voleva anche offrire agli studenti una protezione che garantisse loro una maggiore indipendenza.
Ed è su questo sfondo non particolarmente glorioso in cui ebbe inizio l’università che si stagliano le prime relazioni fraterne tra retorica e accademia. Forse la retorica era vista come un mezzo per “addomesticare” l’università, cioè per sviluppare una cultura del confronto? Vediamo due aspetti che hanno a che fare con la didattica, anzi con la stimolazione cognitiva degli studenti tramite la retorica:
- La Disputatio: per il nostro scopo è interessante fare riferimento alla disputa generale, che ruotava attorno a un argomento qualsiasi (“de quodlibet”) proposto da chiunque volesse dare libero sfogo al proprio estro. Il sapere si dava per acquisito, si valutava però soprattutto la sottigliezza dell’analisi, la sua profondità e intelligenza, così come la maniera, più o meno brillante, di difendere la tesi proposta alla riflessione. Nessuno poteva essere ammesso a un esame preparatorio alla licenza se non aveva frequentato dispute di maestri per un anno e partecipato attivamente a due dispute, in presenza di qualche maestro (statuto di Parigi, 1366) (pp. 140-141).
- La retorica al servizio della didattica: Giovanni di Salisbury, vescovo di Chartres (XII secolo), condanna i maestri che, cercando di dar prova della propria erudizione, ottundono le facoltà intellettuali dei loro studenti. Gli argomenti non sono dei giochi di parole, ma hanno la funzione di attivare la cognizione degli ascoltatori. Secondo il Manuale di iniziazione alla vita universitaria, redatto da Martino da Fano, nel 1255, Dio rivolgerà al maestro – quando si presenterà davanti a lui – queste domande: “A quale scopo hai studiato?”, “Come hai insegnato?”, “Come hai pregato?”, “Come hai ‘disputato’?”, “Sei stato zelante?”. Anche perché “non è la toga che fa il dottore, né la berretta; ciò che fa il dottore è contemporaneamente il suo sapere e il suo modo di trasmetterlo, “ad utilitatem auditorum”, per essere utili a coloro che ascoltano» (pp. 149-151). Ed è questa utilitas auditorum che vogliamo adesso approfondire. Ecco, allora, che torniamo alla domanda centrale della nostra esposizione: qual è il legame che unisce veramente retorica e università?
2. Ricerca del legame profondo tra retorica e università
La risposta a tale domanda si trova più facilmente se consideriamo le radici di queste due istituzioni. Come contributo della nostra Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale voglio offrire alcune idee del Centro di ricerca “Retorica e Antropologia” (4).
Nel nostro centro di ricerca si uniscono i due concetti di retorica e antropologia non nel senso di una antropologia retorica, che studia un homo rhetoricus, ovvero un uomo ridotto alla sua capacità comunicativa; noi cerchiamo piuttosto di approfondire una retorica antropologica, che cerca di trovare dimensioni profonde della retorica aperta allo sviluppo della persona nella sua attività comunicativa, cioè approfondire l’identità della persona nel suo riferimento al “tu”.
Le radici di questo significato della retorica si trovano nella tradizione greco-latino-cristiana, che permea il concetto di università. Ricordiamo alcune questioni ben conosciute. Aristotele (Politica 1253a) mette insieme due convinzioni: che l’uomo è l’unico essere vivente caratterizzato dal Logos (zoon logon echon) e che ha una natura sociale (politikon zoon). Ma se si va un po’ oltre a queste considerazioni note, si scopre la vera dimensione della retorica, cioè che vivere in comunità significa veramente saper distinguere tra il bene e il male, il giusto dall’ingiusto, perché, al di fuori della virtù, l’uomo è peggiore degli animali più pericolosi e cattivi (5). La retorica non è quindi per Aristotele un mezzo di potere, ma uno strumento di comunità e società. Nella linea romana mettiamo in rilievo Cicerone. Nel suo De Oratore III (53-55) parla della eloquentia come una delle virtù più importanti (una quaedam de summis virtutibus) perché rappresenta la possibilità di attrarre e convincere qualcuno. Ma questa responsabilità si può assumere soltanto se l’oratore ha probitas e prudentia. Letteralmente, dice Cicerone: quae quo maior est vis, hoc est magis probitate iungenda summaque prudentia (e quanto è maggiore questa forza, tanto più questa deve essere associata all’onestà e alla massima saggezza). L’oratore ha pertanto la grande responsabilità di essere virtuoso, forte e prudente, perché la retorica non è autoreferenziale; richiede uno sforzo per arrivare alla mente e al cuore dell’altro. E questo cuore è un terreno sacro.
L’apertura al trascendente viene magistralmente svelata nel De doctrina christiana di Sant’Agostino, grazie alla sua universalità antropologica riguardo il sapere, la rivelazione e il senso di comunità con gli altri. Il De doctrina christiana è formato da quattro libri: tre sono d’ermeneutica, cioè di interpretazione della Sacra Scrittura, e in uno viene esposta la parola di Dio. Quest’ultimo volume può essere considerato di retorica. Tuttavia, il tipo di conoscenza della Parola di Dio che il libro propone non resta solo al livello dell’informazione, bensì riguarda un conoscere più profondo della Scrittura, un conoscere “con gli occhi del cuore” (sui cordis oculis vident, ibid. IV 5,7). Così abbiamo al centro della retorica ciò che è al centro dell’università: l’uomo, per restare nei termini della retorica aristotelica, e l’Ethos.
Nella tradizione romana, da Cato Maior a Quintiliano, si parla del perfectus orator come vir bonus dicendi peritus. Per Sant’Agostino, il predicatore credibile è colui che manifesta con la sua vita il valore delle sue parole. Ed è questa unità di vita che gli conferisce autorità (ibid. IV 27,59): granditate dictionis maius pondus vita dicentis (più che la solennità dell’elocuzione, ha peso senza dubbio la vita dell’oratore). L’unione che deve esistere tra il ben parlare e il buon agire è evidenziata nel caso del teologo predicatore dalla polisemia del termine orator (oratore e pregatore): il predicatore sia orator antequam dictor (ibid. IV 15,32). Chi non pensa qui all’ideale di professore a cui tendiamo tutti, cioè un professore che convince ed incoraggia per la sua autorità scientifica e morale? Così diventa possibile realizzare uno dei più grandi ideali dell’università: la relazione, la comunicazione personale.
E qui ci troviamo in sintonia con le idee centrali del fondatore e primo Gran Cancelliere dell’Università della Santa Croce, il Beato Álvaro del Portillo (6), che descrive l’università con queste parole: “Il lavoro universitario richiede (…) anzitutto un rapporto individuale, personalizzato, tra professori e studenti” (Rendere amabile… 622). L’università sarà “una scuola di convivenza umana” (ibid. 623) soltanto se, nel nostro caso, la retorica viene insegnata e praticata con queste virtù umane di rispetto, stima e alla fine di profonda caritas christiana al di là delle differenze di ogni tipo. E così si uniscono retorica e università per essere – anche con le parole di Don Alvaro – “un luogo di convivenza serena e di rispetto per la diversità di opinioni dei suoi membri” (Rendere amabile… 625). Questa convivenza rispettosa ha una profonda dimensione retorica, che vede al centro del suo interesse scientifico e pratico non tanto il parlato, quanto le figure dell’emittente e del ricevente.
Nella mia esperienza di più di 40 anni di lavoro universitario devo dire che la capacità di ricerca e la profondità scientifica dell’istituzione sono indispensabili, necessarie da tutti i punti di vista, ma non sufficienti. Dal fertile giardino della buona ricerca deve emergere la collegialità, che va al di là della classica universitas ed è il luogo dove retorica e università diventano inseparabili.
E ora possiamo passare alle conseguenze che la fratellanza tra retorica e università produce sulla vita universitaria, se guardiamo la questione dal punto di vista antropologico.
3. Conseguenze della fratellanza tra retorica e università
Nel presente intervento possiamo sottolineare due aspetti di questa collegialità che hanno a che vedere con:
a. La didattica universitaria
b. Le relazioni interpersonali.
a. La didattica universitaria
Ognuno di noi vede come successo del proprio lavoro di docente il fatto che lo studente sviluppi la sua personalità, sia autonomo e responsabile nella sua ricerca, diventi un buon professionista… Se riflettiamo su questo scopo del nostro lavoro, la prima conseguenza è che la didattica va orientata alla stimolazione cognitiva del ricevente e non all’erudizione del professore o alla trasmissione completa di un programma talmente ampio da contenere tutto quello che si può dire sul tema, ma che non sarebbe trasmissibile nemmeno in due anni.
Nella filosofia dialogica Martin Buber parla di “incontro” (die Begegnung), che implica non immettere nell’altro le informazioni con un imbuto o tramite pressione, ma trasmettergliele con rispetto ed adeguatezza alla sua razionalità. In sociologia Jürgen Habermas chiama “discorso senza dominazione” (der herrschaft- sfreie Diskurs) quello che prevede la parità simmetrica dei partner nella comunicazione. Queste teorie hanno lasciato le proprie tracce nella didattica. Una prova ne sono il flipped oppure l’inverted classroom, dove con l’aiuto e con materiali del professore la preparazione è individuale e l’incontro in classe diviene un’occasione per il lavoro comune e interattivo. Il punto di partenza è che il sapere non può essere trasmesso, il sapere viene acquisito da ciascuno.
Cosa fa quindi il professore? Il professore vigila sulla correttezza, ma penso che il suo compito più importante sia la motivazione: entusiasmare gli studenti, farli appassionare alla sua materia mobilitando il desiderio d’imparare e di ricercare. All’Università Tecnica di Berlino è stato sviluppato il programma “imparare ricercando”. Punti centrali sono:
- Sviluppare una domanda
- Verificare lo stato della ricerca
- Sviluppare una definizione precisa del problema
- Elaborare un piano di ricerca
- Controllare il metodo
- Effettuare e valutare la ricerca
- Classificare, valutare e riflettere sui risultati ottenuti
- Presentare, spiegare e pubblicare i risultati (7)
Di grande valore didattico è imparare a lavorare sin dall’inizio in gruppo. Non senza motivo si parla oggi in questo contesto di communities of practice.
Si potrebbe argomentare – e con ragione – che questo metodo è più impegnativo e richiede molto tempo al professore.
Certamente è così, ma questo impegno è un guadagno per il professore. Infatti, come sosteneva Wilhem von Humboldt, uomo importante nella tradizione universitaria – almeno in Europa –, deve esserci interrelazione tra ricerca e insegnamento.
Qualcuno – anche a ragione – penserà: “è un modello utopico… gli studenti sono più pragmatici… imparano quello che serve per superare l’esame…” Condivido l’obiezione. Per questo penso che lo strumento più efficace per queste innovazioni didattiche possa essere l’esame stesso. Qui non è possibile una presentazione dettagliata dell’approccio, ma ne delineeremo alcuni tratti. Possiamo comparare la modalità classica di svolgimento di un esame con un’altra più innovativa: nel modello classico gli studenti imparano dai propri appunti, da un manuale e rispondono a domande; nell’altro modello sono gli studenti che diventano responsabili di un tema, ricercano, fanno l’esposizione, sono loro a fare le domande, scrivono un saggio e imparano già dall’inizio a strutturare il testo, a citare correttamente, ecc. Il professore presta attenzione alla correttezza del lavoro e accompagna gli studenti nel loro impegno.
Non possiamo ora approfondire ulteriormente. Penso che i colleghi e le colleghe interessati al tema troveranno soluzioni molto efficaci attraverso i gruppi di lavoro. Voglio solo sottolineare che quest’approccio didattico interattivo e di lavoro così personale degli studenti si fonda su un concetto retorico-antropologico di grande rilevanza: la fiducia. Per essere didatticamente efficace, la fiducia deve caratterizzare tutte le relazioni universitarie, comprese quelle verticali: dagli organismi di governo ed amministrazione ai professori, da questi agli studenti e viceversa. Le relazioni orizzontali non sono meno importanti: tra i membri del governo e dell’amministrazione, tra i professori e tra gli studenti(8).
E sono proprio queste relazioni interpersonali che costituiscono la seconda dimensione del rapporto fraterno tra retorica e università.
b) Le relazioni interpersonali
Punto di partenza per le nostre riflessioni finali è un’antropologia ottimista, cioè che non mette a fuoco le carenze dell’uomo e il suo sforzo per compensare questo deficit, ma le sue possibilità di sviluppo. E la relazionalità è uno degli elementi antropologici che consentono lo sviluppo della personalità umana. Nel nostro contesto possiamo concentrarci su due componenti di questa relazionalità:
- Il rispetto
- La fiducia
b1) Il rispetto
Aristotele sintetizza nella sua Rhetorica (1378a 8) le caratteristiche dell’Ethos dell’oratore in tre elementi: Phronesis, Arete, Eunoia(9). Quest’ultima, Eunoia, unisce due concetti che in altre lingue vengono separati: ben pensare e ben volere, e crea l’atmosfera necessaria per poter respirare all’università: i colleghi, gli studenti e tutto il personale sanno che gli altri pensano bene di noi (fino a quando non facciamo qualcosa che possa far pensare loro il contrario…). Possiamo illustrare questo con un esempio concreto preso dal saggio sulla comunità (10) di Romano Guardini, che delinea bene anche l’approccio della retorica antropologica nel nostro centro di ricerca: il contatto visuale nell’interazione viene normalmente appreso come una tecnica d’interazione efficace. Questa strategia sarebbe però artificiale (e non molto efficace) se il mio sguardo non rivelasse un atteggiamento interiore di accettazione dell’altro, volto cioè ad accettarlo e sbloccarlo simultaneamente, a lasciare che sia sé stesso. Il pensare e volere bene fornisce un campo di autonomia e libertà per agire con creatività.
Atteggiamento rischioso? Sì, ma è lo stesso rischio dell’amore. Questa è la vera universitas, koinonia, in virtù della quale, come diceva Aristotele (Ethica Nicomachea 1159b 31-32), è possibile l’amicizia (ἐν κοινωνίᾳ γὰρ ἡ φιλία), che crea la comunità dove si sviluppa la persona umana. L’antropologo Antonio Malo
formulava questo principio nel XIII Convegno di studio sulla necessità dell’amicizia (11) così: “L’amicizia appartiene all’essenza umana, poiché la persona, per perfezionarsi, cioè per diventare ciò che è, ha bisogno di amici”.
Ma come sarebbe possibile l’unione tra comunità, dialogo e amicizia senza fiducia tra gli interlocutori? Per questa ragione, la tesi finale del presente intervento è che la “madre“ della retorica e dell’università, colei che le rende sorelle, è la fiducia. Cerchiamo di dimostrarlo.
b2) La fiducia
Abbiamo già visto che l’attivazione cognitiva degli studenti e una didattica interattiva hanno bisogno di una relazione di fiducia all’interno dell’università. In questo senso possiamo concludere che la fiducia può diventare madre delle due sorelle retorica e università se incorpora un elemento comune tra le due. E questo elemento è, secondo la mia opinione, l’interrelazione di due mezzi di persuasione retorici, il Logos e il Pathos, cioè l’argomentazione convincente e l’accettazione da parte dell’altro di questi argomenti. E su questi due parametri poggia la fiducia, che mette in gioco la libera volontà. Per comprendere bene questa pluridimensionalità del dialogo fiducioso, non conosco nessun testo più chiaro e convincente del punto numero 4 dell’enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI (2009):
Perché piena di verità, la carità può essere dall’uomo compresa nella sua ricchezza di valori, condivisa e comunicata. La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi comunicazione e comunione.
Diventa chiaro e plausibile che la fiducia si fonda sulla convinzione che l’altro (il collega, lo studente, la direzione, ecc.) vuole come me vedere la realtà per ciò che veramente è, e con questa fiducia, il Logos diventa un possibile Dia-Logos. Ma il plus dell’università che abbia un fondamento cristiano va oltre:
La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell’amore: è, questo, l’annuncio e la testimonianza cristiana della carità (ibid.).
Il “lógos dell’amore“. Si tratta di una logica speciale, un vedere col cuore, ed un cuore pieno di voglia di servire. Un dialogo fondato sulla fiducia è un mezzo di comunicazione usuale in un’università dove la collegialità non sia una questione formale oppure uno slogan pubblicitario dell’istituzione, ma una realtà che scaturisca dall’amicizia e la favorisca.
Per il lavoro d’ogni giorno questa fiducia ha conseguenze di grande rilievo. Secondo Niklas Luhmann (12), la fiducia è un fattore decisivo per la riduzione della complessità (Reduktion von Komplexität). Ma più importante ancora è che la fiducia viene legata alla responsabilità: se posso fidarmi che l’altro prenda i suoi compiti e che non mi abbandonerà nel lavoro, mi fido di lui e quindi la complessità sarà minima. Allo stesso tempo, la responsabilità sarà possibile solo se la fiducia viene data in anticipo. Così, con la fiducia, si aprono margini non solo per esercitare, ma anche per amare la responsabilità.
Quanto tempo si può risparmiare se invece di controlli, anzi censure, regna la chiarezza e la verificabilità nelle norme e nelle decisioni! Si può parlare di un circulus vitiosus della sfiducia, dove le relazioni umane diventano sempre più difficili e aumenta lo spazio per la diffidenza e l’ombrosità, e di un circulus salutis, dove la fiducia e la chiarezza generano energie supplementari e creatività.
Conclusioni
In che senso quindi retorica e università sono sorelle? La madre di entrambe, la fiducia, porta le sue figlie ad essere strumenti di unità. Nella retorica viene espressa questa caratteristica fondamentale dell’interazione umana molto perspicuamente da un autore tedesco del secolo XIX ben conosciuto dagli studiosi dell’oratoria: Adam Müller. Nei suoi dodici discorsi sull’eloquenza (Zwölf Reden über die Beredsamkeit) (13) questo sagace autore sottolinea che la buona retorica non cerca di uccidere con i suoi argomenti, e nemmeno con la verità; il buon oratore non vuole vincere, vuole convincere. Per questo, ogni buon discorso è per lui colloquio, cioè attraverso la bocca dell’emittente sono in due a parlare: egli e il suo avversario (ibid. 47). E così sintetizza il suo concetto retorico: nessuno può essere un oratore migliore di colui che sa ascoltare bene (ibid. 64).
E l’università, come diventa essa stessa strumento d’unità? Nicola Cusano nel suo libro sulla sapienza (De Sapientia I, 9) gioca con i due significati del sapere (conoscere e gustare) quando scrive: sapientia est, quae sapit, qua nihil dulcius intellectui. Il sapere diventa vita, è qualcosa di grande valore e non una valigia pesante piena di informazioni.
Sì, l’università è Alma Mater, dove tutti i collaboratori si sentono bene quando, uniti da un ideale, lavorano insieme e, grazie a questa energia dell’unità di spirito, possono gestire bene le differenze di opinioni, le deficienze proprie e degli altri. Alla fine, l’università diventa un luogo d’interazione amichevole, dove è possibile la formazione del cuore, die Herzensbildung, secondo l’espressione nota del classicismo tedesco, e lo sviluppo della persona (14).
__________________
Note
(1) Bergamino, Federica (ed.), Liberare la storia. Prospettive interdisciplinari sul perdono. Milano: Franco Angeli 2015.
(2) Per una visione generale dello sviluppo dell’università cfr. Tanzella-Nitti, Giuseppe (1998), Passione per la verità e responsabilità del sapere. Un’idea di università nel magistero di Giovanni Paolo II. Casale Monferrato: Edizione Piemme.
(3) L’attualità del tema si potrà vedere in uno special issue sulla postverità che
alla fine di ottobre 2019 verrà pubblicato nella rivista della Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale Church, Communication and Culture.
(4) Cfr. www.rhetoricandanthropology.net/
(5) Più tardi Sant’Agostino dirà (De Civitate Dei XII 27) che l’uomo è sociale per
natura e antisociale per vizio.
(6) Cfr. Ateneo Romano della Santa Croce (ed.), Rendere amabile la verità. Raccolta
di scritti di Mons. Álvaro del Portillo. Pastorali – Teologici – Canonisti – Vari. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana 1995, p. 581 ss.
(7) Cfr. Sarah G. Hoffmann, Björn Kiehne, Ideen für die Hochschullehre. Ein Methodenreader. Universitätsverlag der TU Berlin, 2016 http://verlag.tu-berlin.de
(8) Guido Gili ha sintetizzato in un saggio che vale la pena leggere, le caratteristiche del professore che garantiscono la sua credibilità: Expertise, justice, reciprocity. Cfr. „Expertise, justice, reciprocity: the three roots of teachers’ credibility“, in: Italian Journal of Sociology of Education, 5 (1), 2013, 1-18.
(9) Cfr. Gil, Alberto (2016), L’Arte di convincere. come trasmettere efficacemente il tuo messaggio. Roma: Edusc, Capitolo 3.
(10) Guardini, Romano (1950), Vom Sinn der Gemeinschaft. Zürich: Arche, 36, 43 e s.
(11) Università della Santa Croce, Roma 24-25 febbraio 2007.
(12) Luhmann, Niklas (1968), Vertrauen. Ein Mechanismus der Reduktion sozialer
Komplexität. Stuttgart: Ferdinand Enke.
(13) Müller, Adam (1967), Zwölf Reden über die Beredsamkeit und deren Verfall in
Deutschland. Frankfurt a.M.: Insel.
(14) Cfr. Gil, Alberto (2019), L’Arte di comunicare davvero se stessi. Dieci lettere ai giovani. Roma: Edusc, pp. 58-59.
__________________
Lezione inaugurale dell’Anno Accademico 2019-2020
Roma, 7 Ottobre 2019
Pontificia Università della Santa Croce