Se “mi” racconto mi conosci – Brunetto Salvarani, il teologo del dialogo

«Oggi va di moda  bollare come buonista chi lavora nel dialogo. Non è cattiveria. È mancanza di strumenti per capire. Ed è su questo che dobbiamo lavorare». Costruire ponti tra le persone e le comunità è scelta non solo del cuore; richiede riflessione. Ne è assolutamente convinto Brunetto Salvarani, teologo laico, che di questa sfida in Italia è uno dei protagonisti.

Classe 1956, emiliano doc («di Carpi, come Ciro Menotti, Dorando Pietri e don Zeno Saltini», sorride) è esperto di ecumenismo e dialogo interreligioso, materie che insegna in diversi istituti teologici italiani. Ma ama dialogare a 360 gradi con frequenti incursioni anche nella cultura popolare. Sposato e padre di un figlio oggi ventiseienne, qualche tempo fa ha pubblicato addirittura un libro che prendeva spunto da un cartone animato, I Simpson, per parlare della fede. Sempre però con un punto di riferimento preciso: la Bibbia, straordinario condensato di umanità. Che è poi il cuore anche del suo ultimo volume – Teologia per tempi incerti, edito da Laterza –, una galleria di personaggi della Scrittura riletti come icone delle fragilità di oggi. Perché anche l’uomo della Bibbia è fragile, persino Gesù lo è stato; ma ci ha mostrato come vivere questa stessa condizione come un «dono prezioso».

«Appartengo alla generazione fortunata che nel solco del Concilio si è ritrovata con la Bibbia di Gerusalemme tra le mani», racconta. «E devo molto agli anni in cui al liceo di Correggio don Luciano Monari – biblista e futuro vescovo di Piacenza e Brescia – ci faceva lavorare sul Vangelo di Marco con un’attenzione e uno sguardo che non avevo mai conosciuto».

Uno sguardo, quello di Brunetto, che è diventato una vocazione: studiare da laico in una Facoltà teologica, coltivando appunto l’attenzione al dialogo. «Già il fatto di avere quattro Vangeli e non uno è eloquente», commenta. «La Bibbia è un testo aperto, plurale. L’esito di una mediazione tra saperi, tradizioni e sensibilità diverse. Tutto meno che un libro “sacro”, se intendiamo la sacralità come qualcosa di intangibile. È il grande codice dell’ospitalità».

A FIANCO DEI FRATELLI EBREI

Tra le esperienze che hanno segnato il cammino di Salvarani c’è il percorso di Qol, un gruppo di teologi che alla fine degli anni Ottanta cominciarono ad avvicinarsi alla Scrittura fianco a fianco con la tradizione ebraica. «Un altro incontro fondamentale per me è stato quello con Paolo De Benedetti», teologo e biblista cattolico di famiglia ebrea. «Dalla lettura ebraica della Bibbia ho imparato tanto», assicura Salvarani: «Il valore del memoriale, cioè ricordare ma con una prospettiva proiettata in avanti. E poi lo studio della Parola di Dio, la dimensione della liturgia familiare, la speranza contro ogni speranza… Anche l’idea di una teologia narrativa mi è venuta dai racconti della tradizione giudaica e da tanti autori contemporanei israeliani. Senza dimenticare la sensibilità per la libertà di pensiero tipica del mondo ebraico».

Dialogo con le persone, ma anche in alcuni luoghi. «Il campo di concentramento di Fossoli si trova ad appena tre chilometri da dove vivo io», annota Brunetto. E la sua storia non è solo quella di Primo Levi che da lì partì per Auschwitz; Fossoli fu anche la prima sede di Nomadelfia con don Zeno e poi il Villaggio San Marco, con i profughi istriano-dalmati. Per questo nel 1996, da assessore alla Cultura a Carpi, ho promosso l’istituzione della Fondazione Fossoli. Un modo per salvaguardare la dimensione della memoria ma anche il suo potenziale di intercultura».

Nei mille rivoli del dialogo, “intercultura” per Salvarani è un’altra parola chiave: per anni ha collaborato con il Cem, il Centro di educazione alla mondialità di cui era l’anima a Parma il missionario saveriano padre Domenico Milani: «All’inizio degli anni Novanta – con alcune maestre, che raccoglievano la sfida posta dai figli degli immigrati – abbiamo dato vita alla prima strategia per assumere l’apertura alla diversità come paradigma dell’educazione. Una decina d’anni fa pensavamo che questo stile in Italia fosse diventato la norma. Invece oggi stiamo tornando indietro: si parla quotidianamente di immigrazione, ma è sparita l’idea di integrazione».

E infatti “dialogo” oggi è una parola guardata sempre più con sospetto. «Occorre rispettare anche chi vive con difficoltà la presenza dei migranti», avverte Salvarani, «accettare di riflettere insieme, discutere, ragionare. La sento oggi come una vocazione importante, anche se controcorrente».

Proprio in questo mese due appuntamenti ci offrono l’occasione per coltivare il dialogo: il 17 gennaio la Chiesa italiana celebra la Giornata del dialogo ebraico-cristiano, e subito dopo sarà la volta della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «Sull’ebraismo non fermiamoci al tema dell’incontro con le nostre radici», commenta il teologo. «Così guardiamo solo al passato, mentre questa Giornata è proiettata sul futuro. Pensiamo anche solo a che cosa potrebbe significare un lavoro serio sull’ebraicità di Gesù nelle nostre comunità». Intanto, però, si riaffaccia l’antisemitismo: è di poche settimane fa la notizia delle pietre della memoria divelte a Roma: «L’antisemitismo non è uno dei tanti problemi legati al razzismo, ma qualcosa che ha una sua dimensione ecclesiale che ci interpella», continua Salvarani. La stella gialla gli ebrei hanno cominciato a portarla a partire dal IV concilio Lateranense del 1215…». Quella stella, insomma, l’hanno imposta loro i cristiani.

Allora anche qui l’unica strada resta la pazienza del dialogo: «Instillare il germe della curiosità, lo studio della storia. Con molta pazienza e realismo: abbiamo alle spalle diciannove secoli in cui abbiamo considerato gli ebrei come deicidi, responsabili della morte di Gesù, occorreranno generazioni per superare davvero i pregiudizi».

E sull’unità dei cristiani? «Siamo usciti dall’inverno ecumenico», risponde Brunetto. «Al netto di questioni serie come la ferita tra Mosca e Costantinopoli, il clima generale è positivo. Penso sia stata importante la spinta impressa da papa Francesco all’incontro quotidiano, al di là delle differenze dogmatiche e storiche che continueranno a esserci. Il futuro ecumenico non sarà la super-Chiesa che raduna tutti, ma l’accettazione dell’unità nella diversità. Che non banalizza le posizioni, ma le valorizza capendo che la differenza non è necessariamente una ferita inferta all’altro»

 

Tratto da Famiglia Cristiana