
Le Lettere di Alessandra Bialetti – Una pecora da buttare, ma…
Es 32,7-11.13-14; 1Tm 1, 12-17; Lc 15, 1-32
Giocoliere… quanto hai parlato in questa domenica di fine estate quando il sole ancora ci fa compagnia e le giornate in carcere scorrono lente e accaldate. Tante parole, tante indicazioni e fa sorridere che nella prima lettura ci parli del vitello d’oro, simbolo di altro tipo di adorazione, in un luogo in cui di vitelli dorati se ne sono costruiti vari e dietro ai quali ci si è persi. Ma proprio qui c’è bisogno di ricordarlo come anche a noi “liberi fuori” tutte le volte in cui costruiamo idoli per sentirci meno soli, per trovare quelle strategie che ci cambino la vita mentre si rivelano solamente delle trappole mortali. Nelle celle del carcere non entrano i vitelli d’oro lasciati fuori dalle sbarre, quelli per cui si sono rovinate vite e famiglie e per i quali si paga e anche molto caro. Fa veramente sorridere che ci ricordi quanto l’oro non luccichi ma crei ombra dentro di noi, quanto il rivolgere lo sguardo al nostro ombelico ci porti lontano dall’incontro con uno sguardo misericordioso che, sebbene riprenda con forza e rimproveri con energia, poi concede una nuova possibilità. E nel vangelo hai condensato tutta la Scrittura, tutto il tuo essere, tutta la tua “teoria” che nella vita di ognuno si incarna come pratica. La pratica della misericordia, di un cuore che non sa chiudersi a differenza del nostro, di braccia che non sentono la fatica dello stare sempre spalancate, di mani inchiodate al legno di una croce sulla quale sei salito apparentemente sconfitto per fare della ferita una feritoia e invitarci a guardare oltre, a passare oltre, ad abbandonare il vitello d’oro.
In cappella l’estate ancora conclamata porta irrequietezza e agitazione, A. si interroga su queste “benedette” pecore perché ultimamente più che amato si sente bastonato, ripreso e, peggio, dimenticato. Quel fine pena che si è allungato all’improvviso lo prostra, è la tentazione di non credere più, di abbandonare i momenti di preghiera, i silenzi abitati dalla Sua presenza. A, parla della seduzione che mina la fiducia, di quel male che non è il diavolo rosso con il forcone ma è il considerarsi persi, scartati, oggetti irreparabili e inservibili. A. si sente quella pecora cercata a tarda notte ma poi, nelle sua parole, ammazzata, abbandonata, buttata da parte. Quante volte anche noi? Dice che non è bene lasciarla sola ma si sente abbandonato, che ha bisogno di essere amata ma non si sente visibile. Quante volte anche noi? Al posto di quella A. potremmo mettere le nostre iniziali e la storia non cambierebbe. Grazie A. che ci fai riflettere quanto labile sia la nostra fede, quanto fragile il nostro credere, quanto immenso il buco in cui cadiamo quando non riusciamo a cogliere più lo sguardo del Cristo su di noi e il suo invito a tarda notte a tornare all’ovile caricati sulle sue spalle. Come il buon pastore che non ha intorno al collo una pelliccia costosa ma la sporcizia e l’odore sgradevole della sua pecora smarrita, di quell’unica senza la quale non è tranquillo anche se le altre 99 sono al sicuro, di quella che lo agita dentro a tal punto da rimetterlo in cammino dopo una giornata di faticoso lavoro per riunire il gregge. Ritornano le parole di papa Francesco: “se un pastore non sa dell’odore delle sue pecore che pastore è”? La pecora smarrita per la società è un investimento a perdere, uno scarto, un incidente di percorso. Perché sprecare soldi ed energie per qualcosa che non vale, per una moneta che non luccica, per una vita che si è voluta perdere? Anche stavolta il tuo, giocoliere, è un ragionamento fuori misura ma dentro al carcere lo comprendono bene. Per Gesù lo scarto è l’investimento più produttivo: un’assurdità. Nessuno scommetterebbe un euro su questa operazione di marketing. Torna a studiare, Gesù, farai più soldi se ti impegni. Invece no. Gesù fa prevenzione, anche dietro le sbarre, come nella nostra vita di liberi, investe su una nuova educazione, porta fuori da noi il meglio anche se lo vede solo lui, scommette su quell’unico residuo di umanità che ci portiamo dentro, rischia tutto ciò che ha a costo di perdere ogni cosa. Il pastore delle nostre campagne alleva le pecore per interesse, per renderle pasciute il più possibile e venderle a peso d’oro, per mangiarle. Il Cristo pastore non cresce la pecora per trarne un affare ma per donare cura, per proteggerla, per caricarla sulle spalle, per andarla a cercare in capo al mondo, per continuare a parlare chiaro e forte di un amore che non conosce muri, steccati, catalogazioni, etichette. Un pastore strano ma è quello che invocano i detenuti quando denunciano un sistema, una società che processa ma non riabilita, che non pone le condizioni perché ci si possa pentire e redimere, perché si possa sperare di essere reintegrati. Detenuti che riconoscono il loro sbaglio ma sperano, nonostante le cadute continue, nella possibilità di un recupero, di carceri più vuote e di prevenzione nella vita reale. Non è facile, Signore, stare qui dentro e ascoltare il dolore che scorre in chi si sente condannato, non tanto dalla giustizia che deve fare il suo corso, ma dal proprio credere di non essere più recuperabili. E mi torna in mente Don Milani e la sua scuola a Barbiana, scuola di dimenticati, di rifiuti, di ignoranti che mai avrebbero potuto imparare nulla ma che hanno riscattato se stessi sulla scorta di qualcuno che ha creduto in loro con due semplici parole “I care”, io ho cura di te, tu mi sei a cuore. Anche A. che si sente una pecora chiamata ma poi dimenticata, anche noi quando siamo A.
E dove sta il segreto di tutto questo? Sta nello sguardo di Gesù che vede persone e non reati, persone e non i loro sbagli, persone e non massa. Un occhio che non vigila sul gregge indistinto in cui i visi sono tutti uguali, in cui si perdono i particolari, in cui gli occhi nemmeno si scorgono, ma uno sguardo che fissa uno a uno, che chiama tutti per nome, e che, così facendo, si accorge che una, una sola piccola pecora non risponde all’appello. E parte, senza indugio. Investimento a perdere? Operazione di mercato sbagliata? La risposta è che parte alla ricerca. E basta. E non tornerà fino a quando l’avrà sulle spalle. Non la religione dei perfetti, ma la proposta di fede agli sbagliati. Straordinario Gesù, straordinario. Impopolare, forse fallito per l’ottica del mondo ma ci lasci senza parole. A. è ancora agitato: “Io qui dentro sto cercando di fare tutto per bene, per riscattarmi, per riprendere la giusta strada, ma Dio cosa sta facendo per me?”. La risposta viene dall’omelia: quel Dio che sembra lontano e assente, incurante del dolore e della difficoltà non sta chiedendo nulla ma sta donando tutto, quell’accoglienza incondizionata che non fa domande ma apre le braccia al figliol prodigo, che sorride senza investigare, che ogni mattina esce e scruta l’orizzonte in attesa del ritorno. Ecco cosa fa per te A., per me, per noi tutti: apre la porta, le braccia, lo steccato dell’ovile, senza chiedere cosa abbiamo combinato perché già il dolore ce lo siamo causati da soli. Non chiede,accoglie; non domanda, apre; non indaga, ama. E passa in ogni carcere, a Rebibbia come anche nelle nostre prigioni quotidiane e pone gesti di amore incondizionato in un mondo dove tutto è sottoposto alla condizione dell’essere bravi per essere amati, irreprensibili per essere accettati. Il Cristo ci concede il beneficio del dubbio, ci rilascia per buona condotta anche se sa che cadremo poco dopo, investe sul nulla vedendo invece il bene che comunque tenta di albergare in noi.
E la domenica termina con un gesto che commuove e fa pensare. Un detenuto riceve da una volontaria una bibbia. La desiderava da tempo, ricercava quel contatto con la Parola che lo potesse accompagnare nelle giornate senza senso del carcere, voleva da solo poter incontrare quel messaggio ma la lingua italiana gli era ostica. Arriva la bibbia in inglese e K. si inginocchia a ringraziare. K. fa fermare anche le guardie che sollecitano l’uscita dalla cappella per la loro giusta pausa pranzo. Ma tutto si interrompe. Un gesto d’amore incondizionato fa arrestare la frenesia del nostro vivere. K, in ginocchio riceve un dono, è la pecora issata sulle spalle, è lo scarto che splende come luce. Ero una pecora da buttare ma…
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.