
Blog – Per i social né Salvini, né Lamorgese: non si vive di soli estremi
Pare che una delle notizie con più eco a riguardo del nuovo governo, sia che la nuova Ministra dell’Interno Lamorgese abbia, rispetto ai social, la posizione assolutamente contraria a quella del precedente Ministro dell’Interno Matteo Salvini: mentre per quest’ultimo le fortune politiche erano in gran parte dovute all’utilizzo dei nuovi media, la Lamorgese non possiede alcun account di Twitter, non un profilo Facebook o Instagram. Dietro questo plauso riconosco il silenzioso sospiro di sollievo di tanti giornalisti della politica che impazzivano alle esternazioni “social” di Salvini che uscivano a qualsiasi ora del giorno e della notte: vuoi mettere un Ministro dell’Interno che torna ai vecchi comunicati stampa, anzi, preferibilmente, neppure a quelli?
Però, se capisco la vacanza più o meno assoluta da internet che tante persone si sono prese durante le ferie, è necessario prendere atto che la soluzione della Lamorgese non è praticabile ormai da nessuno. Credo si contino ormai sulle dita della mano quelli che, tra le nostre conoscenze, non usano i nuovi strumenti (ricordandosi che whatsapp è un social, anzi è uno dei più importanti).
Il punto è che i social mettono semplicemente in mostra uno dei nostri più grandi difetti: quello di estremizzare i problemi. Lo avevamo imparato ai tempi del referendum sul divorzio e sull’aborto, ma in realtà non è un problema dei politici: siamo noi ad essere così. Facciamo un esempio quotidiano di vita familiare. Affermazione: scusa se questa sera faccio tardi a cena. Contro-affermazione: è inutile che lo dici, tanto tu fai sempre tardi a cena.
I social, con i loro algoritmi, non fanno altro che enfatizzare questo nostro mondo di non dialogo. Certo, se chi si comporta così è il Ministro dell’Interno, la febbre sociale arriva ai massimi livelli, ma neppure è ragionevole la risposta di chi decide di non usarli. Non è ragionevole semplicemente perché non è vera. La vita digitale e la vita reale sono sempre più interconnesse: anzi ormai la vita digitale è parte importante della vita reale. Chiedetelo alle ormai migliaia di detenuti di Rebibbia che, lungo il 2019, non solo hanno mangiato panettoni e colombe grazie al web, ma hanno potuto coprire le loro nudità (nel senso più reale del termine, visto che si trattava di raccogliere mutande) e curare la propria igiene (a questo servono bagnoschiuma, dentrifici, spazzolini e asciugamani). Potrei fare altri esempi, come la ricerca di lavoro per ex preti od ex suore, ma non vorrei sfuggisse il punto decisivo: e cioè il fatto che attraverso il web (i blog e i social uniti assieme) si crea un tessuto connettivo affidabile, innervato di fiducia, che permette poi di comprare e regalare la biancheria intima a degli “sconosciuti” che sconosciuti non sono perché “in mezzo” c’è qualcuno che tu conosci.
E questo avviene grazie alla decisione, non solo mia e del mio blog ovviamente, di costruire nel web delle situazioni di rispetto. Non è solo una questione cosmetica. È un fatto di verità. Perché non è vero che il protagonista del dialogo citato sopra sia uno che arriva sempre tardi: avverrà qualche volta o molte volte, comunque non sempre.
Ora, se io dico “deve marcire in galera” oppure “gli immigrati li prendano a casa loro quelli che vogliono far sbarcare la Sea Watch”, il problema non è dei social ma del preferire l’ubriacatura dell’estremizzazione, che consente di trasformare la discussione in litigata e di vincere la litigata, al cercare di abbassare i toni e trovare un punto d’incontro e non di scontro. Perché i social servono a socializzare, cioè ad incontrarsi, non a scontrarsi. E per questo vanno avanti.