
Eugenio Levi – Ricostruire
Come Marisa Levi aveva anticipato, un brano dal diario del papà Eugenio a esattamente 75 anni dalla sua composizione
Castello di Trevano (Lugano), ore 5.30 di sabato 26 agosto 1944
Ricostruire: è il fondamentale compito che si propone il mondo alla fine dell’immane conflitto: ricostruzione materiale e morale, economica e politica, in un mondo e, più particolarmente, in un’Italia dilaniata e impoverita. Sarà possibile una ricostruzione economica con la scarsezza dei mezzi a disposizione di fronte alla vastità dei bisogni? E una ricostruzione politica, sociale, quando ci si trova così in basso? Non dobbiamo assolutamente dubitare; è però certo che la via della ricostruzione sarà lunga e faticosa; ora, quali fattori potranno facilitare la via e permettere di risalire, lentamente magari, ma sicuramente, senza continue ricadute? Credo che uno di questi fattori si possa riassumere in una parola: fiducia. Anzitutto fiducia in se stessi: il compito non è certo breve, i risultati non si possono vedere alla fine di ogni giornata; anche se nulla di concreto pare di aver raggiunto, si potrà avere la soddisfazione del lavoro compiuto e lo stimolo a proseguire, se si ha fiducia nelle proprie forze, fiducia che il risultato non mancherà.
Ma la ricostruzione non è opera di individui isolati, è opera della collettività, occorre la collaborazione, occorre, dunque, anche la fiducia negli altri e questa è, praticamente molto più importante. Nella ricostruzione politica ed economica si distinguono e si distingueranno più nettamente, forse, in futuro, dei gruppi, dei partiti. Bisogna convincersi che essi sono diversi, non sono necessariamente antitetici. Il partito che abbiamo scelto è quello che ci appare migliore, non è l’unico ammissibile; la soluzione che esso ci propone non è e non può essere ottima, avrà come tutte le altre dei vantaggi e degli svantaggi, solo che noi riteniamo, dalla sintesi di questi pro e di questi contro, che quella soluzione sia migliore delle altre. Ma ciò significa che anche nelle altre soluzioni ci può essere del buono. Dobbiamo quindi ammettere che eventualmente dovremo un giorno riconoscere di esserci sbagliati e quindi cambiare via; e questo non vorrà dire tradire l’idea, ma semplicemente non perseverare in un errore riconosciuto; e soprattutto dobbiamo cercare di conoscere a fondo anche le altre soluzioni e di far conoscere a fondo la nostra, non soltanto cercare di aumentare il numero dei nostri proseliti, ma di diffondere le nostre idee ed inculcarle esclusivamente per la forza della loro bontà.
Occorre che la lotta fra i partiti segua sempre più, nei limiti del possibile naturalmente, le vie della sana competizione commerciale, in cui vince il migliore, e non le vie della battaglia violenta o subdola, in cui vince il più forte o il più astuto (certo la concorrenza fra i partiti non può esplicarsi molto…). E la concorrenza vuole onestà e sincerità: mettere in evidenza i pregi reali della nostra soluzione, non delle vane promesse; non nascondere in ogni caso le difficoltà cui si andrà incontro e la massa e la durata dei sacrifici da sostenere; non si può pretendere che si elenchino anche i difetti, ma non bisogna neanche creare l’illusione che non ce ne siano. I difetti risulteranno dal confronto con le altre soluzioni e dall’esposizione avversaria perché, naturalmente, per convincere della bontà della propria soluzione, si possono e si devono anche mettere in evidenza i difetti delle altre, ma i difetti delle altre soluzioni, non la dubbia moralità familiare di un pezzo grosso di quel partito, o le malefatte di un suo antenato, o gli errori di grammatica di un articolo espositivo, e così via. Questi mezzi subdoli, per non dire stupidi, tanto usati in tempo di guerra guerreggiata e non guerreggiata, devono essere abbandonati, non perché qualcuno lo imponga, ma per il riconoscimento della loro inutilità.
Se si ammette che i partiti rappresentino programmi diversi – non sette nemiche-, che vogliamo convincere della superiorità del nostro programma – non stroncare dei nemici che ci ostacolano-, dobbiamo far sì che il nostro programma sia noto agli altri, dobbiamo mettere in evidenza i pregi del nostro e i difetti degli altri, dobbiamo quindi far sì che le nostre esposizioni vengano lette da coloro che non hanno ancora le nostre idee. Ed è possibile mai che i supposti avversari leggano con serenità, con buona volontà di studiarle le nostre esposizioni, se esse contengono improperi, basse accuse, falsità o argomenti assolutamente estranei? La propaganda (forse questa parola dovrà essere abbandonata, perché conserverà da questo periodo un significato subdolo) nella sua concorrenza deve convincere coloro che non sono con noi; con quei mezzi serve soltanto a fare maggiore impressione su coloro che, già con noi, leggono i nostri articoli e che non dovrebbero aver bisogno di maggiori prove della bontà del partito cui hanno aderito.
E bisogna anche avere fiducia in coloro che hanno una specifica competenza. Abbiamo visto negli ultimi anni trionfare l’incompetenza, purché provvista di un ottimo passato politico; dobbiamo però ammettere che esistono persone competenti e affidare loro i compiti particolari; o almeno, perché spesso il competente non è persona attiva, chiedere a loro pareri e consigli; dobbiamo ammettere che esistono (e dovremo saperli scegliere) individui onesti, oltre che competenti, di cui possiamo seguire con fiducia gli insegnamenti; sicché, se ci elencheranno tanti e tanti difetti di una soluzione proposta, concluderemo che questi difetti ci sono, o, almeno, esamineremo meglio la nostra soluzione, e non diremo che essi per interesse personale, per conservare il posto o per poca capacità sono contrari. Così, solo a titolo di esempio e senza giudicare per nulla questa proposta, nel discutere l’opportunità della socializzazione dell’impresa, sarà bene sentire ciò che ne pensano almeno gli economisti, se non gli industriali, per i quali c’è una abbastanza fondata presunzione di interessi contrastanti, e, se ci daranno non una semplice sentenza negativa, ma una trattazione chiara di difetti della soluzione, non dovremo inventare che gli economisti sono contrari perché sono i capitalisti che li mantengono o perché temono di perdere il proprio posto, eccetera.
Infine, bisogna avere fiducia nell’autorità. Non bisogna, in proposito, farsi illusioni. Per quanto l’autorità sia creata o scelta da noi, sia soggetta alle nostre critiche, possa essere rimossa da noi, non si può supporre che tutti i suoi provvedimenti rappresentino direttamente e esattamente le nostre idee, i nostri interessi e tantomeno quelli di ciascuno di noi. Per la grande maggioranza delle persone, in qualunque regime, per quanto democratico, i provvedimenti cadono, almeno nella prima apparenza, sempre dall’alto. E allora bisogna che ci sia la fiducia che il provvedimento che lede l’interesse mio o del mio gruppo, che ci sembra ingiusto, non è stato fatto appositamente per ledere l’interesse mio o del mio gruppo, per creare delle ingiustizie; in secondo luogo devo pensare che molto probabilmente i motivi e gli scopi del provvedimento che a me pare ingiusto, sono, forse, a me ignoti, non lanciare subito l’accusa di cattiva volontà da parte del legislatore, che fa un provvedimento per danneggiare una categoria, o di stupidità del legislatore, che fa un provvedimento completamente inutile, ma invece indagare le cause e gli scopi del provvedimento; e naturalmente l’indagine deve essere favorita dall’autorità, che deve spiegare, chiarire. Questo si deve soprattutto pretendere da chi dà degli ordini, delle leggi: che spieghi, che convinca della necessità o dell’utilità dell’ordine. Ma occorre che ci sia fiducia vera e reciproca: a priori dobbiamo ammettere che il legislatore abbia fatto bene, o abbia fatto male inconsciamente, e chiedere spiegazioni se non lo comprendiamo; ma bisogna che poi abbiamo fiducia che tale spiegazione sia vera e non sia una scusa; e anche occorre che chi dà l’ordine abbia fiducia che la spiegazione venga richiesta perché veramente interessa, non sia una scusa per ritardare l’esecuzione.
Ora non bisogna fraintendersi sulla fiducia. Se è necessario avere fiducia, non significa che si deve avere fiducia in tutti. Non bisogna avere il preconcetto che nessuno merita fiducia e occorre pensare che esistono persone oneste e sincere (e solo le persone oneste sincere possono ammetterlo, naturalmente), praticamente poi bisogna vedere di volta in volta chi merita questa fiducia. Ma la fiducia nell’onestà e sincerità deve essere in relazione al carattere della persona, non delle idee che professa. Gli antichi riconoscevano spesso la lealtà o anche il valore dei loro nemici, da molto tempo noi siamo capaci solo di denigrare in tutti i modi possibili i nostri nemici. Ma riconoscere la lealtà altrui è anche più facile se ci si convince che non si tratta di nemici, ma di persone che hanno soltanto idee diverse dalle nostre, che potrebbero benissimo convincersi della superiorità delle nostre come noi dovremmo poterci eventualmente convincere della superiorità delle loro. Bisogna dunque scegliere gli uomini secondo la fiducia che meritano in relazione alla loro moralità, non in relazione all’apparente coincidenza delle loro idee con le nostre.
E un’altra cosa importante: la fiducia è uno di quei fenomeni che seguono, direbbero i matematici, la legge esponenziale. Quando cresce, cresce sempre più rapidamente, e viceversa. La fiducia genera fiducia, così come la sfiducia genera sfiducia. Lo sanno bene gli economisti, perché è la storia di tutte le crisi. Quindi bisogna cominciare con la fiducia; nei rapporti fra due persone, fra due gruppi, fra due popoli, bisogna pure che uno cominci a dimenticare preconcetti di inimicizia, di sospetto, e cominci ad avere fiducia, bisogna che non tema di essere sopraffatto o deriso per essere stato il primo. Se con un simile atto, che sembra di remissività, di credulità, io direi di buona volontà, si getta il seme tanto fruttifero della fiducia, questo è un vero atto meritorio, e, anzi, eroico, non minore, anzi maggiore, perché più oscuro, di tanti altri fatti di eroismo militare.
Aggiungo qualche nota biografica
Eugenio Levi è nato a Milano l’11 ottobre 1913; dopo avere frequentato l’Istituto Tecnico Commerciale Moreschi, si laurea in Economia e Commercio all’Università Bocconi nel 1935. Nel 1932 si abilita all’insegnamento di stenografia presso l’Unione Stenografica Lombarda a Milano, dove conosce la futura moglie Ines Garboli. Nel 1937 prende servizio nell’Istituto Tecnico Leonardo da Vinci a Trieste, ma l’anno successivo viene esonerato dal servizio a causa delle leggi razziali. In previsione della possibile proibizione dei matrimoni misti (avvenuta poi nel Novembre 1938), Eugenio e Ines decidono di anticipare il matrimonio civile, cosa che fanno l’8 settembre 1938. Il 17 dicembre 1938, ottenuta la dispensa, si sposano con rito cattolico e il 22 dicembre vanno a vivere insieme. Eugenio insegna alla Scuola ebraica di Milano, nei corsi allestiti in seguito all’esclusione di allievi e insegnanti ebrei dalla scuola pubblica, fino alla nascita e al Battesimo della prima figlia, Lidia. Da quel momento, non potendo più insegnare in alcuna scuola, ha mantenuto la famiglia con lezioni private. Nel frattempo, attirato dagli esempi di carità cristiana di diverse amiche e parenti della moglie, si preparava al Battesimo con l’aiuto di padre Genesio, frate cappuccino del convento di viale Piave. Quando, con Ordinanza di Polizia del 30 novembre 1943, viene emanato l’ordine di internamento degli ebrei in appositi campi di concentramento, dopo essere sfuggito all’arresto il 2 dicembre 1943, nonostante l’offerta di rifugio propostagli da qualche amico, dopo aver ricevuto lui stesso il Battesimo il 21 dicembre 1943, ripara avventurosamente in Svizzera con la sorella Annettina. Qui comincia il fitto diario, fino all’aprile del 1945, quando ha potuto rientrare in Italia e riabbracciare i suoi cari. Dopo la morte di Eugenio, avvenuta nel 1969, la sorella Annettina ha trascritto il diario dalla stenografia in corsivo, rendendolo così disponibile ai figli e ai nipoti di Eugenio. Il 28 aprile 1945 Eugenio rientra in Italia e il 1° maggio a Margno, dove la famiglia era sfollata, ritrova la moglie e la figlia maggiore e conosce finalmente la figlia Silvana che aveva già più di 14 mesi, e che all’inizio non lo vuole vedere. Grazie allo studio del latino e della filosofia fatto in Svizzera, prende la maturità scientifica, che gli consente di iscriversi al corso di laurea in Matematica, e nel 1949 si laurea in questa materia. Negli anni 1946-1952 nascono gli altri quattro figli. Nel dicembre 1955, vinto un concorso universitario per una cattedra di Matematica Finanziaria, Eugenio prende servizio a Catania e nel 1958 si trasferisce all’Università di Parma, dove rimane fino alla morte, avvenuta l’11 febbraio 1969.