Avvenire – Quello che so dei preti (più di metà della mia vita)
Stagione di ordinazioni sacerdotali, stagione di anniversari. Stagione di Spirito Santo. Compio fra qualche giorno 31 anni da sacerdote (ne ho sessanta, per cui la matematica dice che ho passato più di metà dell’esistenza da prete) e scopro che, malgrado tutto, ci sono ancora giovani che si giocano la vita come i discepoli sul lago di Tiberiade, e vedo preti in età ricordare con gioia il giorno in cui c’era gente che d’improvviso ti baciava le mani perché erano diventate quelle del Signore. Preti, più che mai, chiamati ad aiutare a capire e a vivere la fede come speranza. Preti che aiutino i cristiani a non sostituire il cristianesimo con ideologie di fede nel ‘progresso’ (il nome che prende la speranza quando smette di essere cristiana) oppure a non proiettarlo completamente nell’aldilà, a non trasformarlo in qualcosa di puramente ‘spirituale’ e di individualistico che negherebbe così la totalità della realtà umana.
Nella Messa di domenica scorsa, Solennità di Pentecoste, il Papa getta potentemente l’ancora nella speranza. «Abbiamo soprattutto bisogno dello Spirito: è Lui che mette ordine nella frenesia. Egli è pace nell’inquietudine, fiducia nello scoraggiamento, gioia nella tristezza, gioventù nella vecchiaia, coraggio nella prova. È Colui che, tra le correnti tempestose della vita, fissa l’ancora della speranza».
Vedo preti essenzialmente finalizzati a una dimensione di speranza, per questo chiamati essi stessi a incarnare Cristo e a vivere Cristo qui non solo come la presenza storica di Qualcuno che è vissuto duemila anni fa ma di Qualcuno che, venuto nella carne, è poi risuscitato ‘in Spirito Santo’. Cioè, è nella Parola, è nel cuore di ogni uomo, è nella vita della Chiesa: non per nulla papa Francesco ha voluto collocare dopo Pentecoste la memoria di Maria Madre della Chiesa. Preti che non siano solo l’espressione di qualcosa avvenuto duemila anni fa, ma anche l’inizio dell’Avvento definitivo del Cristo: quello che prenderà possesso di tutto e in tutto.
La ragione per la quale il cristianesimo porta sempre con sé la struttura della speranza è che la sua essenza è di essere un movimento che va incontro a un Signore risuscitato che è salito al Cielo e ritornerà. Cristianesimo in movimento e dunque preti in movimento. Quando divenne Elemosiniere, Kornad Krajewski si sentì dire dal Papa che poteva buttare la scrivania perché avrebbe dovuto recarsi per le strade o dove vivevano i poveri. Sono parole che valgono per tutti i preti perché ciascuno di noi è chiamato a essere come Maria. Una che esce da casa propria, da Nazareth, per portare Gesù nelle case degli altri, in quella della cugina Elisabetta ad Ain Karim, dopo aver attraversato l’intero paese. Una che è il contrario di Erode, che non percorre neppure i pochi chilometri che lo separano da Betlemme per recarsi di persona a verificare chi sia quel Messia che pareva essere arrivato ma, da dietro la sua ‘scrivania’, chiede ai Magi di «informarsi accuratamente » e di fornirgli poi adeguata relazione (Mt 2,3-8).
Il prete, uomo di Eucarestia, è uomo che deve concepire sempre se stesso come qualcuno che porta Gesù. Che si muove, uscendo dalla propria zona di comfort materiale e spirituale, per andare verso il prossimo perché è l’unico modo per andare verso il Signore. Un prete che si alimenti di un concetto di cristianesimo che sia una presenza già del tutto completa, chiusa, definita, è un prete che va rigettato, perché non contiene in sé alcuna struttura di speranza. Nel discorso dell’Ultima Cena, Gesù parla di uno Spirito che ci condurrà alla verità ‘tutta intera’: è in questo movimento verso la verità tutta intera che sta l’essenza del prete servitore di quella speranza essenziale per la fede oggi. Dio ha parlato in Cristo e non vi è più nulla da aggiungere: ma questo è l’inizio di una graduale scoperta di Chi sia quel Verbo che ci viene donato. Il prete, novello o anziano, è sfidato ogni giorno a scoprire nuovi modi per introdurre l’uomo nella Verità tutta intera.