Alessandra Bialetti / Blog | 31 Maggio 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Relazioni al tempo del carcere

At 15,1-2.22-29; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29

Relazioni ai tempi di whatsapp: quando con un messaggio spedisci a casa un lavoratore e la sua famiglia finisce in mezzo a una strada, quando con un messaggio poni fine a una relazione che non sai come gestire, quando con un messaggio costruisci o distruggi. Relazioni al tempo del carcere dove il cellulare è oggetto di desiderio proibito e di gran potere se riesci a eludere i controlli, quando vieni perquisito fin nel midollo perché lo puoi nascondere ovunque, quando un apparecchio, ormai infinitesimale, ha la stessa pericolosità di un plaid, un lenzuolo troppo lungo, un utensile per cucinare perché diventa un potenziale strumento di evasione, offesa, autolesionismo. Nella domenica in cui i social riportano la notizia del licenziamento digitale, entro a Rebibbia dove il cellulare è ancora quel furgoncino che trasporta i detenuti ai processi, nei trasferimenti, nelle retate. Ci siamo anche dimenticati l’etimologia di quella parola ormai rappresentativa delle nostre relazioni virtuali. Ma perché parliamo di questo? Perché oggi, Gesù, ci parli di qualcosa che non è di questo mondo, di un Paraclito che difende, che si fa vicino, che scorta lungo il cammino (non la scorta che ti accompagna verso il cellulare). Ci parli di una relazione di prossimità e di protezione. Relazioni al tempo del carcere, non scandite da un messaggio, da un selfie, da instagram. Relazioni faticose, che si costruiscono in poche ore a settimana ma che rimangono per mesi nella memoria, forse per sempre anche se difficilmente fuori dalle sbarre continueranno. Entro in reparto e non trovo M. Sono due domeniche che manca e mi preoccupo. Non sempre i compagni di detenzione sanno dirti qualcosa perché le relazioni, anche nello spazio ristretto di un carcere, sono sfilacciate, difficili da coltivare, solitarie o urlate. M. è stato trasferito e non si sa nemmeno dove. La precarietà delle relazioni: costruisci, fai un pezzetto di strada insieme, ti guardi negli occhi, ti stringi le mani al segno della pace, ti cibi dello stesso pane eucaristico e poi un cellulare si porta via tutto. Magari i tuoi amici sono usciti, in semilibertà, ai domiciliari o per fine pena. Dovresti esserne contento invece, il giocoliere, ci ha regalato qualcosa che si chiama relazione, è stato uomo di relazioni costruite sul ciglio di una strada, in mezzo alla polvere, fuori dal tempio dove entravano solo i “regolari”. Ci ha insegnato che non esiste un whatsapp per liquidare una vita ma che ci vuole coraggio e sudore per creare un legame. Così, quando penso ai tanti amici incontrati nella cappellina e più rivisti, sento una specie di fitta al cuore e li porterò sempre con me seguendoli con un pensiero e con una preghiera. Grazie, maestro di relazioni, che nella domenica mediatica che sbatte una famiglia per strada senza lavoro, ci ricordi che c’è un lavoro più grande da fare su di noi: costruire legami, prendere su di sé la fatica dell’altro, condividerne un pezzetto di strada, farsi compagno. Mancheranno i visi e gli sguardi di quei compagni di viaggio perché, alla fine, ci ricordi che siamo impastati della vita dell’altro che porterà sempre con sé pezzi di noi, di ciò che saremo riusciti a donarci.

Alla fine il vangelo è vita e se non parla non serve. Don Antonello invita a condividere la parola della Scrittura che ha colpito nel segno. Oggi i detenuti sono sottotono, capita. Anche per loro questo inverno senza fine è pesante da vivere, quel grigio che penetra tra le sbarre appesantisce un passo già faticoso. La loro difficoltà è la nostra, ecco perché ci viene in soccorso il Paraclito. Per tradurre, semplificare, spiegare. Per discernere tra le tante parole che ci bombardano e ritrovare un senso tradotto oggi da misere emoticons. Ascoltare è una scelta. Chiudere le orecchie e gli occhi sulla realtà, un’altra. Ecco il primo insegnamento di oggi: non dobbiamo perdere la capacità di metterci in ascolto anche se il significato spesso non è così immediato perché è proprio in quella fatica che si gioca la risposta a una chiamata di bene sulla nostra vita. Il Paraclito, che parola difficile. Resa più semplice da Don Antonello; spezzata in modo più comprensibile. Custode della memoria lo definisce, un aiuto per rileggere la propria vita in chiave di possibilità e non di disgrazia, di opportunità di ricostruire piuttosto che buttare via, di contrasto con i “demoni” del male che mettono in luce solo il disastro che siamo stati capaci di fare. Bello pensare che a noi è stato inviato un soccorritore quando la vita in cella rimanda di continuo all’inutilità di uomo, al fallimento, alla fragilità che ha fatto del male a sé e agli altri. E questo vale anche fuori dalle sbarre quando il peso degli errori diventa un macigno insormontabile. Oggi è la domenica di uno Spirito che rimanda una parola buona su di noi, che non giudica ma offre una possibilità, che non condanna senza appello ma ha in serbo sempre una proposta alternativa. Abbiamo bisogno di un difensore delle nostre fragilità, di qualcuno che veda al di là della nostra debolezza e soprattutto della nostra volontà di deviare da una strada di bene.

Abbiamo bisogno di un Dio presente, che fa la strada con noi, che dice “vado ma torno” perché avete bisogno di una guida, di un compagno accanto, di non perdervi. Quante volte sentiamo la famosa storiella “uscito per comprare le sigarette e non si è più visto”. Tu, maestro di relazioni, non sei questo. Tu dici e mantieni, tu ci vedi talmente smarriti che ti “sbrighi” a tornare e a metterti accanto alla disperazione dei discepoli di Emmaus persi nella loro delusione. Il tempo scorre. La Parola confonde, dice R. Sì, è così la Parola fonde con sé. Chiama a lasciarsi mettere in discussione, a lasciarsi plasmare. R. è smarrito e Don Antonello, forse senza nemmeno rendersi conto della battuta, chiede “sei fuori?” intendendo la confusione, la distrazione del momento. R. risponde “no, sono dentro”. Già, siamo dentro. Non solo in una cella ma nelle nostre paure, nella nostra testa dura, nelle nostre resistenze e reticenze. R. ha ragione. Siamo proprio dentro. Ecco perché la Parola ci confonde: perché ci vuole fuori, ci chiama fuori e fuori è scomodo stare, è impegnativo, tocca sporcarsi le mani.

La preghiera dei fedeli arriva puntuale e sbalorditiva. G. dice: “preghiamo per chi non ha nemmeno questo”. Siamo al limite, anzi fuori da ogni immaginabile. Pregare per l’esperienza di fede all’interno del carcere, pregare perché in carcere sta scoprendo qualcosa di diverso, sta scendendo dentro di sé, sta rivedendo la propria vita. Non è detto che cambierà una volta fuori come non sappiamo nel vangelo quale sarà il percorso di tutte quelle persone che si sono imbattute nel Cristo e sono state toccate dalla sua mano. Sappiamo che G. ci sta pensando. E a volte basta.

D. si avvicina e mi dice che forse la prossima domenica non ci vedremo. “Sono liberante”. Liberante? Ma che significa? “Domani forse esco, non me l’aspettavo, erano mesi che aspettavo il decreto”. Liberante, che strano neologismo. Liberante vuol dire che ti “perdo” ma che tu sarai di nuovo libero fuori, spero anche dentro. Ti pare, giocoliere, che dovevo entrare in carcere per imparare un modo diverso di vivere le relazioni? Costruire e saper lasciar andare, accogliere e salutare, mai possedere. Ciao D., M., S., A. Ci siamo scambiati un legame anche se strano e breve. Lontano da whatsapp, vissuto di persona.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.