Le Lettere di Alessandra Bialetti – Lasciatevi amare
At 14, 21-27; Ap 21, 1-5D; Gv 13, 31-33. 34-35
72. 72:12 = 6. Al.: “Devi scriverlo. Solo 72 ore in un anno. Solo 6 ore al mese possiamo incontrare i nostri figli”. Questo il benvenuto a Rebibbia. Questo il dolore espresso, un dolore che chiede di essere tradotto, portato fuori da quelle mura, fatto conoscere. Per noi è inimmaginabile il solo pensare di non vedere i figli crescere magari anche dentro un pancia, non vederli nascere e accogliere il loro primo pianto, non seguirli nel primo gattonare incerto. Non accompagnarli a tracciare il loro cammino. Solo 72 ore in un anno per essere figlio, marito, padre, fratello. Un amore che si esprime nella lontananza, si vive nel pensiero, immaginandolo. Un amore fatto di una stanza colloqui in cui l’intimità è sotto gli occhi di tutti, in cui le sedie sono cementate sul pavimento per timore di chissà quali azioni. Un amore fatto di racconti da fuori ma mai vissuto in presa diretta. Nella domenica che celebra l’amore di un Gesù che non lascia soli, è la solitudine e la paura a farla da padrone.
Amore da a-mors: un’etimologia falsa ma che ci aiuta a comprendere. Quella “A” davanti alle parole che indica mancanza, privazione. In questo caso l’amore è mancanza di morte, è vita. Difficile affrontare questo tema qui dentro, difficile proclamarlo quando N. crolla a terra. Quando N. piange in ginocchio urlando per il dolore della morte del figlio piccolo. Tre anni, senza poter fare nulla. Che possiamo dire oggi, giocoliere? Come possiamo parlare di questo tuo amore folle quando il dolore scorre a fiumi? Amore sono i gesti dei compagni che cercano di confortarlo, che si fanno intorno, che proteggono quell’immagine che lacera il cuore, che custodiscono un padre che non sarà più tale. Amore come mancanza della morte. Ma qui la morte è forte, a volte data, molto spesso sperimentata. E’ anche la nostra morte quando non riusciamo a mettere quella “A” nelle nostre azioni, nei nostri progetti, nelle nostre intenzioni. Ma ancora di più quando non permettiamo che il Cristo, nascosto sotto le sembianze delle persone vicine, si faccia prossimo, ci venga accanto.
Quella morte che rimane se togliamo la “A” ci riconduce alla paura di amare ed essere amati. Al profondo desiderio di ricevere cura e accudimento ma alla tremenda paura di viverlo. Sì, sembra impossibile ma in fondo lo sperimentiamo tutti. Essere amati vuol dire riconoscere il proprio bisogno, uscire allo scoperto, mostrare la propria fragilità, debolezza, il non riuscire a farcela da soli. E la regola è non mostrarsi mai vulnerabili. Ce lo ricorda A. quando parla del suo coma per droga, quando parla di quella droga assunta per non voler affrontare i problemi, perché era un bambino dentro e tutto fuori sembrava al di sopra delle sue forze. E la droga è diventata un mezzo per non sentire, per non contattare il vuoto, per non finire in un gorgo di solitudine. Scivolando in un pozzo ancora peggiore. Amare è difficile quando ti espone e mette in ridicolo, quando è segno di debolezza e non di forza. Un coro di voci lancia questo pensiero: “Qui dentro, ciascuno di noi ha imparato a non esporsi, a tacere, a non avvicinare l’altro per paura di essere ridicolizzato. Se tentiamo la via della verità rischiamo la presa in giro e la ghettizzazione”. Un amore che non può essere mostrato, vissuto, spezzato come pane gli uni per gli altri. In carcere la solidarietà esiste, forse anche più di fuori. Ma è difficile mostrarla quando la legge del più forte vorrebbe prevalere. E per noi “liberi” non è la stessa cosa? Quante relazioni blindate viviamo, quanta difficoltà a mostrare il lato tenero di noi, quanto amore senza quella “A”? Ma si può avere paura dell’amore, giocoliere? Si può, si può. Altrimenti il vangelo di oggi non avrebbe senso, altrimenti il tuo richiamo a sperimentarlo sarebbe infondato.
Ho sempre pensato che il Cristo fosse il più grande “psicoterapeuta” della storia. Perché solo Lui conosce profondamente il cuore dell’uomo, le sue resistenze, le sue paure, le sue ritrosie, la sua terribile difficoltà a essere amato, oggetto d’amore che invece spesso sceglie la via di togliere la “A”. Don Antonello osa anche oggi e parla della teoria dell’attaccamento. Vola alto ben sapendo che il rischio è quello di smuovere le coscienze e risvegliare dolori e sofferenze. Ma un vangelo che non entra come una spada nel cuore per guarirlo, e nelle ferite per sanarle, non è il vangelo di Cristo. Meno male. Una “buona notizia” deve riportare quella “A” davanti alla parola morte altrimenti è una delle tante notizie di male che affollano le nostre giornate. La teoria dell’attaccamento afferma che nasciamo dipendenti da un amore immenso che rimane in noi sotto forma di nostalgia di essere curati e accuditi. Nasciamo da un amore che, anche se non perfetto, ci invita a lasciarci andare. Il desiderio di quella cura rimane per sempre e ci espone. Ecco la paura: paura di non rivivere un amore sano, pulito, curativo, un amore che custodisce, un amore di cui ci si può fidare e a cui ci si può affidare. Entri in gioco tu, Gesù. Con la frase del vangelo da grande “terapeuta”: in realtà mancherebbe qualcosa, chissà se le varie traduzioni ci hanno aiutato. Non voglio passare per blasfema ma mi piace pensare a un Cristo che passa nella nostra vita, sia fuori che dentro il carcere, e ci dice: “Lasciatevi amare”. Semplice, senza tanti fronzoli. Senza perdersi in grandi spiegazioni. “Lasciate che il mio amore entri in voi, colmi ogni solitudine, sani ogni ferita, sia balsamo su ogni dolore. Lo so è difficile fidarsi quando l’amico ti ha tradito, quando un genitore non è stato presente, quando un figlio non ti vuole più vedere. Ma oggi il comandamento è nuovo perché è nuova la proposta: prima di essere un comando ad amarvi tra di voi è un invito a lasciarvi amare. Ad abbandonare le celle della solitudine, della morte, della vergogna, della paura per lasciarvi incontrare e mettere in crisi dal mio passaggio”. Perdonate il mio parafrasare, il mio aver preso a prestito la Voce. Per toccarci il cuore inaridito e impaurito dalle tante esperienze di morte che ci hanno attraversato. N. piange ancora, piange un figlio che non c’è più, piange il suo amore di padre che non potrà più proteggerlo. I compagni di detenzione piangono quelle 72 ore che non bastano ad un amore che richiederebbe tempo. Ma si leva una voce: “Dio sta SEMPRE con noi”.
Via libera: lasciamoci amare.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.