Le Lettere di Alessandra Bialetti – Cha paura l’eternità
La domenica del buon pastore (12 maggio, ndr). Un pastore che mette al sicuro le pecore nel recinto perché nessuna si perda e, se dovesse accadere, uscirebbe anche a tarda notte a cercarla. No, Gesù. Di recinti ne abbiamo a sufficienza. Siamo in un carcere non in un recinto salvifico, siamo ristretti, siamo costretti, siamo dimenticati perché noi stessi ci siamo annullati. Se ci ami veramente, tiraci fuori dal recinto, portaci in altri luoghi, qui ne abbiamo a sufficienza.
Potremmo finire qui. Come si fa ad annunciare un pastore buono che raduna e mette al sicuro se il riparo delle quattro mura di una cella è una morte lenta? Eppure eccolo lì, entrare in quella disperazione e annunciare una parola. Se c’è una parola c’è anche bisogno di un ascolto altrimenti è voce di uno che grida nel deserto e il deserto non sente. Invece no. Nel deserto di una cella, nel deserto del nostro silenzio fatto di fallimenti, di fragilità, di abbandoni, risuona una voce. Viene pronunciato il mio nome anche se in carcere, nelle tante celle in cui mi chiudo, dove sembro un numero, un anonimo, un senza volto, un rifiuto, un reietto. Sai, giocoliere, in fondo io non sono una pecora migliore di questi detenuti solo perché sono fuori da una cella, forse sto peggio io di loro perché mi credo libero mentre la libertà a cui mi chiami sa di un’eternità che mette paura. E’ definitiva, chiama alla mia responsabilità di ascoltare, di riconoscere tra le mille voci l’unica che mi porta fuori dal frastuono che vivo. Mi piacerebbe un pastore che fischia e mi fa arrivare, invece no. Ho un pastore che mi invita ad ascoltare, a entrare dentro di me profondamente, a distinguere tra i tanti richiami. Un pastore che non mi impone l’ascolto ma semplicemente lo propone. Don Antonello si ferma. Invita a discernere le voci assordanti che ci popolano: positive o negative? Talmente suadenti da essersi messe il vestitino buono ed essere fraintese. Altrimenti non saremmo qui dentro, non saremmo nelle tante prigioni quotidiane in cui il nostro non ascolto ci rinchiude.
“Se non parla Gesù chi parla?”. Bella domanda. Potevi farcene un’altra? Una più semplice, meno impegnativa. Lo sai che la domenica ci si riposa e non si pensa più di tanto? Già la domenica qui è difficile quando le famiglie sono lontane e non si può giocare con i figli. Parole che rimbalzano cercando una risposta. Don Antonello alza sempre di più il tiro, chiede di domenica in domenica, una discesa in sé stessi sempre più ardua. Scomodo questo pastore. Non si rende conto che non vogliamo sentire cosa si muove dentro? Che siamo fatti di emozioni che meglio lasciar stare tanto sono devastanti e impegnative? Come al solito, i reclusi prima dei “liberi” arrivano al cuore del vangelo. Se non parla Gesù parla la paura. La paura di contattarsi, di scoprire la fragilità, di toccare la propria caduta, di confrontarsi col fallimento. Queste voci sono così assordanti da coprire la voce del pastore che invita semplicemente a seguirlo e promette qualcosa che dura in eterno. Senti, pastore, qui di eterno per alcuni di noi c’è solo la pena. Siamo “senza fine pena”, ciò che è destinato a durare è solo la nostra reclusione. Sembra un autogol: parlare di eternità in un luogo dove le giornate sono tutte uguali, le notti non si distinguono e la solitudine, anche in una cella dove si sta vicini perché stretti, la fa da padrone. Ma anche noi “liberi” siamo dei “senza fine pena” non molto diversi. Forse anche peggiori perché con l’illusione di essere senza prigioni. Invece la nostra pena è ascoltare la paura esattamente come qua dentro, è sostituire una voce liberante con una che spinge al disimpegno, alla disillusione, alla frustrazione. Non siamo diversi. Siamo carcerati fuori da un recinto ma vittime, tutti, della paura di non essere amati.
Però, giocoliere dell’impossibile, se hai creato la paura e ce l’hai messa accanto forse a qualcosa servirà. Don Antonello oggi esagera: la paura è un dono. Ma è un dono solo se la si pone accanto a sé e la si lascia parlare. E’ dono quando diventa il mezzo che il Cristo ci mette in mano per stare all’erta, per vigilare, per affinare lo sguardo sul pericolo, per sintonizzare l’orecchio sull’unica voce che ci vuole in un luogo sicuro e fuori dalle prigioni. Stare all’erta ricorda i soldati in battaglia. Sì, lo siamo. In una lotta continua tra scelte di bene e scelte di male, tra la nostra dignità e la svalutazione, tra la vita eterna e l’eterna sofferenza. Grazie, buon pastore, che proprio qui dentro mi parli di quanto sia sana la paura. Se l’avessimo avuta, se avessimo tenuto alta la guardia, se avessimo focalizzato il nostro sguardo sul tuo passaggio nella nostra vita, non saremmo miseramente franati. Ma è una paura che dobbiamo tenere accanto. Non dietro perché ci bloccherebbe, ci terrebbe legati, impedirebbe di muoverci. Non davanti perché vedremmo solo quella, vedremmo le nostre miserie, le nostre inconcludenze, i nostri fallimenti. Allora ,da una parte la paura che ci mette in salvo dal pericolo e dall’altra una proposta di eternità. Bene, iniziamo a sentirci più al sicuro. Ma non del tutto. Sarebbe troppo semplice. Tu, proponi, chiami a seguire, indichi una strada, lasci aperta la cancellata delle nostre prigioni ma non imponi: ecco dove casca l’asino, come dice il proverbio. Una promessa di libertà che non si impone, che non si realizza se non con la nostra adesione, se non con il nostro credere che, anche se carcerati siamo stai creati per fare cose grandi e non per razzolare come polli in un’aia che distrugge la nostra dignità. G. ci lascia una riflessione importante: l’eternità sta nel ricordo che si lascia nel mondo e non lasciare nessun ricordo o, peggio, una traccia devastante, è nostra scelta. Ecco perché l’eternità ci fa paura. Perché ci richiama alla nostra responsabilità, ci scuote dai nostri errori ma soprattutto dal peggiore dei mali ovvero credere che per noi non ci sia possibilità di salvezza, non ci sia redenzione dallo sbaglio , non ci sia una dignità che può essere ricostruita anche dopo una vita di fallimenti continui. Viviamo di attimi di solitudine davanti alla promessa di un’eternità che ogni giorno rilancia su di noi ci dice quando vive di eternità: quando ascolta la Parola, quando si mette in preghiera. Ecco, quando ci sintonizziamo sulla voce del pastore da noi possono uscire cose grandi. E si aprono le sbarre e le cancellate, anche quelle più serrate.
Ci fa paura un’eternità fatta di scelte ma l’unica scelta è non averne paura.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.