Articoli / Blog / Rebibbia | 10 Maggio 2019

L’Osservatore Romano – Toccare la carne di Cristo

Lo scorso 8 maggio è apparso su L’Osservatore Romano un mio articolo per la rubrica “Ospedale da campo” richiestomi dal Direttore del quotidiano della Santa Sede, Andrea Monda

Padre Graziano Alabi è il il sacerdote congolese dell’Ordine dei Padri Premostratensi condannato a 25 anni di carcere per omicidio e occultamento del cadavere di Guerrina Piscaglia, ma che si dichiara innocente. Avevo visto il suo volto in televisione ma non l’avevo riconosciuto tra i carcerati che stavano arrivando alla spicciolata. Mentre a Rebibbia prepariamo l’occorrente per la Messa in Coena Domini mi parla di lui un altro detenuto, un uomo condannato a 20 anni per aver ucciso la moglie.
Prima di predisporre calice e ampolline, spazziamo dal pavimento i mozziconi di sigaretta. Poche ore prima in quella povera sala c’era stata non so quale riunione e fumare è, insieme a guardare la Tv con gli apparecchi regalati da Francesco Totti, l’unico sollievo alla durezza di una detenzione che, per quasi tutti, significa trascorrere praticamente l’intera giornata in una cella di tre metri per quattro insieme ad altre cinque persone dove si cucina su un fornello elettrico da campo a meno di un metro di distanza dalla “turca” comune.
La mattina dello scorso Giovedì Santo ero stato a San Pietro per la Messa Crismale e avevo ascoltato Papa Francesco mentre esortava noi preti a toccare le ferite delle persone, stando in mezzo alla gente senza cercare le propria comodità. Sapevo che avrei celebrato nel reparto dove sono reclusi i condannati per violenza carnale, pedofilia, e altri delitti che sono i più orribili, ma non avevo immaginato che, fra la trentina di detenuti che sarebbero usciti di cella per partecipare, tre di loro erano fratelli nel sacerdozio. O forse no, non lo sono, non so bene come si dice perché qualcuno non lo è più, prete. Anche di un altro hanno parlato i giornali ma preferisco tenere il nome nel mio cuore perché ora non è più sacerdote: si dice “dimesso dalla stato clericale”. E poi c’è anche un altro, più o meno nella stessa situazione. A dire il vero non sono sicuro di com’è la situazione ma non voglio chiedere bene perché sto preparando la Messa in Coena Domini in un braccio di Rebibbia, non sono allo zoo per curiosare chi è dentro la gabbia. Arrivano, qualcuno dice che si vuole confessare, gli dico che lo facciamo subito dopo la Messa: siamo tutti ammucchiati in un solo stanzone. Finita la Messa gli altri usciranno e io mi tratterrò con chi vuole, uno per volta. Dodici detenuti fanno i dodici apostoli, si tolgono una calza e una scarpa per la lavanda dei piedi, e io mi ricordo che solo uno ha tradito ma che tutti hanno pensato di poter essere i traditori (cfr Mt 26,22). Un detenuto versa l’acqua e un altro mi porge l’asciugamano. Io lavo i piedi e, penso, dovrei baciarteli come ha fatto il Papa proprio qui a Rebibbia, ma non ce la faccio. Sono prete da trent’anni ma non avevo mai ricevuto confessioni di uomini adulti che singhiozzano. Preghiamo per i nostri peccati, che in questo caso sono anche dei delitti: sono vittime con nome e cognome, con volti. Forse, fino a quando non era arrivato Papa Francesco, non ero stato un prete che toccava la gente. Dopo la lavanda dei piedi c’è l’abbraccio della pace. Dura più di tutto perché ciascuno abbraccia ciascuno. Io abbraccio i miei confratelli. Anche quelli che non sono più preti. Perché smetti di essere prete ma non smetti di essere fratello. Prego, sento, parlo, mi commuovo. Quando il Papa cominciò a parlare di periferie mi sentii chiamato, e per questo pensavo di dovermi spostare, andare lontano, altrove. Invece, a Rebibbia, scopro che la periferia esistenziale del mio prossimo è l’unica mia patria, l’unico luogo dove mi sento a casa. Perché “essere in centro”, il contrario cioè di “essere in periferia”, è un’astrazione, un luogo che non esiste: il centro è il non luogo per eccellenza. Ogni vita concreta è periferia ma io lo scopro nella periferia di Rebibbia. Nell’abbraccio, nella comunione di quei fratelli, di quegli uomini, di quei preti ex-preti, mi trovo io, trovo me, sono a casa, sento risuonare dentro di me le parole che Francesco dice ogni volta che va in carcere “perché a te e non a me?”. Sono a casa nell’abbraccio di fratelli che sono puniti per orribili delitti: delitti che dicono di aver fatto o che dicono di non aver fatto, la differenza è enorme ma la punizione è la stessa. Toccare un uomo da uomo significa arrivare non alla sua periferia ma alla tua periferia. Risuona dentro di te la parte di te che non avresti voluto vedere, che non vuoi guardare, ma quell’uomo, quel povero, ti abbraccia dal suo lontano e arriva dove tu non avevi il coraggio di stare. Io sono come te, ti dice: e tu riconosci, spaventato e felice, che è proprio così. E quando un prete lava i piedi a un ex-prete condannato per un delitto orribile cosa fa? Tocca il midollo stesso del suo essere prete. Che è il midollo stesso di Cristo.

Tratto da L’OsservatoreRomano (edizione dell’8 maggio 2019)
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