Alessandra Bialetti / Blog | 29 Aprile 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Il “Tommasismo”

At 5,12-16; Ap 1,9-11a.12-13.17-19; Gv 20,19-31

Questa volta Rebibbia inizia la sera del sabato. A casa. È sera tardi e sto leggendo. Mi colpisce una frase attribuita a Flaubert: “Dio riposa nei dettagli”. Ma chi ? Il gran giocoliere? Scende dagli altari, dalle voci altisonanti delle cattedrali per rivestire i panni semplici e dimessi di un dettaglio? E il pensiero corre al carcere dove il Cristo si fa dettaglio sull’acciaio delle sbarre e sceglie il tavolaccio di una cappellina improvvisata per invitare i “suoi” a mensa. Ricordo la frase biblica tratta dal libro dei Re: Dio non è nel vento impetuoso, né nel terremoto, né nel fuoco ma semplicemente nella brezza leggera. Ecco il Dio del dettaglio, non del clamore ma del nascondimento. Quante volte lo vorrei sentire urlare forte contro la mia sordità ma in realtà sussurra per essere ascoltato, per lasciarmi la libertà di farlo entrare come una brezza. Bene, il Dio del dettaglio mi aspetterà domani a Rebibbia, nascosto, mimetizzato, camuffato sotto gli indumenti degli ultimi. Ma presente come nella brezza leggera. Nulla mai è a caso.

Arrivo in cappella oggi gremita fino all’inverosimile. Dove metteremo tutte queste persone? Non c’è nemmeno spazio per sedersi. Allora Dio del dettaglio è meglio che ti salvi, è meglio che scendi da tutte queste croci e cerchi un posto più confortevole. Sembriamo tornati indietro alla mangiatoia del tuo natale. Ma oggi, come allora, tu non ti sposti. Ecco il primo “tommasismo”: non credere che tu possa scegliere questo posto per manifestarti, un altro luogo a porte chiuse come allora dove entri per portare pace. Ma non avevi altro da fare che convincerci in questo modo? Qui non si sta bene, sai. Qui è un inferno.

Ormai questo scritto domenicale sta uscendo fuori, sta contaminando l’esterno. Don Antonello ci parla di una nuova mistica che diventa rivoluzione politica in quanto cambia le coscienze: la poca dignità di questo luogo, poca perché ridotta a essere tale, sta cambiando il fuori. Apparentemente con un filo di voce che invece diventa un tuono. Chi legge inizia a chiedersi come stanno i detenuti, che vita fanno, che pensieri li abitano. Seguono le loro vicende. Dalle porte chiuse dove il giocoliere si manifesta, si apre una grande piazza virtuale dove il detenuto sta guadagnando voce e identità. Altro che “chiudiamoli dentro e buttiamo via la chiave”: il mistero della vita dell’altro chiuso in quattro mura inizia a essere svelato e in presa diretta, non con le solite parole dei quotidiani.

I bambini in carcere non si toccano, fuori spesso si, purtroppo. Ma in carcere se tocchi un bambino sei un infame, la parola peggiore che tu possa pronunciare: un marchio a vita. A. chiede di pregare per il bimbo di due anni maltrattato e ucciso dalla madre. E da lì parte l’omelia dei detenuti. L’istinto, il disagio, la difficoltà di sintonizzarsi sul bisogno del piccolo ha armato la mano di una mamma che sicuramente già viveva delle grosse criticità. E come ci tocca tutto questo? Che nesso ha con il vangelo? A. ci parla della coscienza che dentro di lui grida davanti a quel gesto. Ma ci parla della sua coscienza, della consapevolezza di non essere stato un padre attento in tanti momenti, di non aver saputo avvicinare il figlio. Quel gesto è un campanello d’allarme che lo tiene sempre in allerta, che lo riporta al bisogno di “sentire” l’altro, di farlo risuonare in sé con la sua storia. “Anche su di me va fatta giustizia per tutto il sonno in cui sono caduto non accorgendomi di chi mi stava accanto. Il senso di colpa che ora sento è ciò che pago in attesa di uscire di nuovo fuori allo scoperto e di incontrare un Gesù che mostra il costato”. Ecco di nuovo il “tommasismo”: non credere di essere degni di mostrare il proprio costato a quel Gesù che sa bene quanto bruci la ferita perché Lui stesso ne è portatore. Credere di essere carne da macello per gli errori commessi quando, invece, siamo dei chiamati da un Cristo che ci mostra il suo petto squarciato per guarire il nostro. Ecco il senso di questo vangelo: fare dei nostri luoghi chiusi uno spazio di relazione profonda con noi stessi, con quel costato aperto dalle ferite di scelte sbagliate e dolori inflitti per incontrare il Cristo del contatto. Quello che prima di dire a Tommaso di accostarsi, si avvicina per toccare, per entrare nella profondità della ferita, per sanare il putridume di una carne in cancrena perché mai disinfettata, perché mai nessuno l’ha voluta vedere. Il Gesù del dettaglio scende sotto la pelle apparentemente richiusa e guarita fino a toccare l’infezione che continua a generare il male. Non più cicatrici rimarginate male ma piaghe sanate. Tommaso da incredulo, come sempre ci viene mostrato, diventa uomo del contatto che prima di allungare la mano si lascia toccare proprio nelle sue incertezze e nel suo giudizio di non essere degno. La ferita di Gesù consente di sentire la propria e, anche in carcere, di iniziare a toccare quella dell’altro. E il “tommasismo” varca le soglie del carcere attraverso le parole dei detenuti. Parole che scappano fuori dalle sbarre e mettono in comunicazione i tanti costati squarciati: dentro o fuori tutti abbiamo un costato piagato. Potrebbe non avere lo stesso nome ma procurare lo stesso dolore. E il dolore condiviso brucia meno, diventa meno pesante.

Il “tommasismo” è nella parole di A. che mi chiede di riportare la sua esperienza di guarigione mentre si sentiva incredulo e indegno di riceverla: “Devi scrivere che solo un mese fa ero disperato, non avevo nessun rapporto con mio padre da tempo, più nessun contatto. Pochi giorni fa proprio lui mi ha ritenuto l’unico degno di ricevere le chiavi di un appartamento che fuori mi aspetta per ricominciare una vita nuova. Non ci posso credere eppure è così. Dillo fuori che tutto è possibile”. Certo A., le tue parole contro il nostro essere Tommaso. Il Cristo che non si ferma davanti a nessun luogo chiuso.

E un altro A., racconta il suo calvario: “Quando mi drogavo ero uno schifo vivente, fuori e dentro dal coma, rimbambito, incosciente spesso anche alla guida della macchina. Un giorno, dopo l’ennesimo sballo, sono entrato in chiesa e ho sfidato quel crocifisso sul muro. Se esisti devi fare qualcosa. Devi. Ho aperto il costato. Ho fatto vedere il mio fallimento, la mia piaga che nessuno poteva guarire e che io stesso impedivo a tutti di toccare. Ho consentito di essere avvicinato dalla dottoressa che mi curava. Dio non ha fatto il miracolo contro di me. C’è la mia volontà di continuare a tenere aperto il costato per voler essere guarito”. Lo guardo. A. ha tanti tatuaggi ma uno mi colpisce: sulla gamba sinistra una pistola rivolta verso il suo piede. “A., porti un bel segno addosso, fanne memoria ogni volta che rischi di perderti. È come spararti addosso, bloccare i tuoi piedi, gambizzare la tua corsa verso la rinascita”. Mi guarda, mi sorride e dice di non averci mai pensato. Poi mi abbraccia, anzi mi “stritola” in una stretta potente: due costati accanto.

Non posso tralasciare quest’ultimo racconto: preghiera dei fedeli. Ognuno, ad alta voce, mette in comune la propria. Una voce: “Preghiamo per la nostra libertà INTERIORE”. Ecco, quanto sono Tommaso! Un detenuto che invece di pregare di uscire presto da quell’inferno, chiede la grazia di essere libero dentro. Dio riposa nei dettagli. Nei dettagli di una parola che diventa omelia.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.