Avvenire – Non scendere dall’amore
Quando pensiamo al Venerdì Santo possiamo riflettere sulle grandi tragedie dell’umanità: dalle cose terribili che stanno accadendo in queste ore in Libia ai resti fumanti di Notre-Dame. Ma Venerdì Santo è soprattutto il giorno della Croce di Cristo. Nel Vangelo Gesù ci parla della sua Croce due volte: «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me» (cfr Mt 10, 38; Lc 14, 27); «se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (cfr Lc 9, 23; Mt 16, 24; Mc 8, 34). Ora, se mettiamo al posto della parola «croce» la parola «amore» non solo le espressioni di Gesù non perdono il loro senso, ma ne mostrano uno più profondo ed ulteriore: ‘chi non prende il suo amore e non mi segue, non è degno di me’, ‘se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda il suo amore ogni giorno e mi segua’. Non sono giochetti di parole ma frasi piene di senso che confermano, in modo suggestivo, che il significato della croce è proprio l’amore.
Gesù quando ci parla della croce ci insegna che ‘amare la croce’ significa propriamente amare fino in fondo le persone che già amiamo dando del tutto la nostra vita per loro. Prendere la croce su di sé, stare in croce, moltissime volte, non significa banalmente accettare la disgrazia improvvisa (cosa, oltretutto, spesso inevitabile), ma rimanere in un amore prendendolo fino in fondo su di sé. A ulteriore conferma di questa lettura avviene che, in un giorno come oggi di duemila anni fa, i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi, mentre Gesù era in Croce lo invitavano proprio a salvare se stesso scendendo dalla Croce: «Se tu sei Figlio di Dio salva te stesso scendendo dalla croce» (Mt 27,40). Anche in questo caso, sostituire «croce» con «amore» illumina, non oscura: ‘se tu sei Figlio di Dio, salva te stesso scendendo dall’amore’. Amare è vincere la tentazione di salvare se stessi ‘uscendo’ dalla relazione, uscendo da un amore.
Da dove nasce la spinta a uscire, ad andarcene, a scendere da un amore che è diventato la nostra croce? Dal desiderio di allontanarci dal dolore che quella relazione ci causa. Quella tentazione viene dal demonio proprio perché noi siamo chiamati a guarire quel dolore con la nostra presenza, dal momento che la radice di ogni dolore, in ultima analisi, è sempre la solitudine, cioè esattamente la ferita che curiamo con la nostra presenza, come ha fatto Cristo in Croce.
Joseph Ratzinger ne era convinto già alla fine degli anni Sessanta. Nella sua Introduzione al cristianesimo scriveva: «Nell’estrema preghiera di Gesù sulla Croce («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato»«Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» – Mc 15, 34), come del resto anche nella scena dell’orto degli ulivi, il nucleo più profondo della Passione non sembra essere qualche dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono.
In ciò viene in luce, in definitiva, semplicemente l’abissale solitudine dell’uomo in genere: dell’uomo che nel suo intimo è solo, tragicamente solo. Pur camuffata, questa solitudine rimane la vera situazione dell’uomo, e denota al contempo la più stridente contraddizione con la natura stessa dell’uomo, che non può sussistere da solo, ma abbisogna invece di una vita con altri. La solitudine è perciò la ragione dell’angoscia, radicata nel fatto stesso che l’essere è gettato allo sbaraglio, eppure deve ugualmente esistere, anche trovandosi costretto ad affrontare l’impossibile» (p. 242).
In un giorno come oggi Cristo ci insegna che stare in Croce è stare nell’amore della propria vita e vincere la tentazione di salvare la propria vita ‘scendendo’ da quell’amore visto che quell’amore stesso ci chiede l’amore necessario per essere salvato dalla malattia della solitudine. E così facendo salveremo anche la nostra vita perché, chi scende dalla propria croce, chi esce dal proprio amore, apparentemente salva la propria vita, ma rimane solo. E viene così gettato nello sbaraglio della propria solitudine dove trova la morte.