Se “mi” racconto mi conosci – In Afghanistan la vita dopo i talebani ha il sapore dello zafferano

L’idea per dare una mano in Afghanistan sembrava perfetta. Un modo per dare un lavoro onesto a chi ne ha più bisogno e allo stesso tempo ridurre il potere dei gruppi armati che spadroneggiano con la forza o con la scusa dell’Islam. L’idea era: sostituire i papaveri da oppio con i bulbi dello zafferano. Le due piante crescono nelle stesse condizioni, con poca acqua e terreni poco fertili; la polverina rossa che si ricava dai pistilli, lo zafferano appunto, ha un valore al grammo superiore all’oro e paragonabile a quello dell’eroina che si ricava dall’oppio; come l’oppio anche lo zafferano richiede un’enorme quantità di lavoro manuale e l’Afghanistan ne ha in abbondanza. Così la Costa Family Foundation, la Ong di Belluno «Insieme si può» e il Cisda (Coordinamento per il sostegno delle donne afghane, probabilmente l’onlus italiana con i migliori contatti nel Paese) hanno avviato nel 2017 un progetto pilota nella provincia di Herat per dare ad alcune donne in difficoltà la possibilità di guadagnarsi da vivere coltivando zafferano. All’inizio tutto bene.

Le donne sono selezionate secondo i consueti criteri socio-economici: hanno estremo bisogno di denaro e hanno famiglie abbastanza aperte da permettere loro di lavorare fuori casa; si individua un campo e dei contadini (maschi) disponibili a passare il know how alle donne, cosa niente affatto scontata in Afghanistan. Ad agosto parte la semina, le piantine crescono, a dicembre c’è anche un piccolo raccolto, ma a inizio 2018 il disastro. Le donne non vogliono più andare nel campo. Troppo lontano, dicono, e soprattutto troppo pericoloso. L’arrivo dei talebani Nell’area si sono fatti vivi i talebani e hanno fatto capire due cose: non vogliono vedere donne lavorare, rendersi indipendenti, spostarsi da sole e, soprattutto, vogliono che quel campo torni a produrre oppio. Serve a loro per finanziare l’attività armata, serve per costringere i contadini a diventare fornitori della banda, legandoli così al successo talebano. Dal gruppo armato dipende il pagamento del raccolto di fine anno e quindi la fedeltà verso i taleb. Poteva essere la fine dell’iniziativa italiana come lo è stato per la maggior parte dei programmi pro zafferano lanciati da Onu e Nato tra 2001 e 2015. Non si può combattere gruppi paramilitari, talebani, Stato Islamico o semplici briganti che contano sulla droga per autofinanziarsi dando dei bulbi di zafferano ai contadini. E invece? «Abbiamo deciso – racconta Daniele Giaffredo, responsabile dei progetti per “Insieme si può” – di insistere. Concordi tutt’e tre le associazioni italiane che collaborano al progetto abbiamo finanziato l’affitto di un altro campo. L’abbiamo scelto più vicino a Herat e in una zona anti talebana, cintato da un muro di argilla e paglia per difendere le piante dal vento e dai vandali. Il proprietario è un contadino abbastanza noto, stimato e potente da fare da guardiano e garante al progetto assieme».

Le donne sono tornate, hanno preparato il terreno, seminato e adesso stanno raccogliendo. Hanno imparato ad arrivare prima dell’alba, quando il fiore sta per schiudersi. Hanno imparato a separare i pistilli ad uno ad uno e a conservarli al buio perché non perda la fragranza. Il raccolto sembra promettente. «Il business plan – conferma Giaffredo – viaggia verso i suoi obbiettivi: recupero dell’investimento entro il terzo anno e accumulo di denaro e bulbi al quinto per rendere le donne indipendenti nell’attività, ma anche finanziare un secondo quinquennio di assistenza e insegnamento per altre donne, senza più donazioni dall’Italia, ma solo con suggerimenti e supervisione». Il sogno di ogni programma di sviluppo: invece di regalare del cibo si insegna a pescare, pardon, a raccogliere zafferano. Il successo del progetto italiano «giallo fiducia» va di pari passo a quello dello zafferano a livello nazionale. Negli ultimi tre, quattro anni, la polvere gialla (che non raffinata è rossa) ha smesso di essere considerata una coltura alternativa all’oppio come avevano sperato per un decennio Nato e Onu, ma un sistema di migliorare l’economia locale dove i talebani non ci sono ancora.

L’Afghanistan è passato da una produzione di 4 tonnellate nel 2015 alle 10 del 2017, alle 13 del 2018. Il 90 per cento dalla sola provincia di Herat, quella dove sono presenti i soldati italiani, dove i talebani sono meno forti e dove hanno deciso di investire le Ong italiane dimostrando di capire il contesto nel quale si muovono. È ancora poco rispetto alle 2/300 tonnellate dell’Iran, leader mondiale della produzione, ma con un valore internazionale medio di mille euro al chilo, aiuta eccome.

Tratto da Corriere della Sera