Le Lettere di Luciano Sesta – Miseria o grandezza del legame “naturale”?
Ho anch’io espresso le mie riserve sullo stile aggressivo e semplificatorio che, al Congresso di Verona, hanno assunto alcune pur giuste rivendicazioni in favore della famiglia cosiddetta “naturale”. L’articolo di Recalcati “La vera legge dell’amore”, apparso su La Repubblica del 31 marzo, si concentra proprio sull’aggettivo “naturale”, contestando, a buon diritto, la sua pretesa di chiudere la disputa su cosa sia veramente famiglia e cosa no. Anche la sterilità è naturale, nota Recalcati, e qualunque legame di filiazione che voglia dirsi umanamente tale è frutto non già della semplice natura, ma dell’accoglienza dell’altro, valorizzato nella sua differenza e unicità. A questo riguardo, mi sembra tuttavia che il pur suggestivo pezzo di Recalcati si basi su un fraintendimento, oggi molto frequente.
È vero, come dice Recalcati, che la genitorialità adottiva è il paradigma di quella naturale, ma questo vale solo quando il genitore biologico non è all’altezza del compito che naturalmente dovrebbe svolgere. In tutti gli altri casi, e a parità di condizioni, potendo scegliere se lasciare un bambino con la madre naturale o affidarlo a una madre adottiva, nessuno sceglierebbe quella adottiva. Il legame naturale è infatti anch’esso paradigmatico di quello adottivo. Lo dimostra il fatto che un buon genitore adottivo è un genitore che si comporta, nei confronti di un figlio non naturale, proprio come se lo fosse. Se la natura fosse così “bruta” come pensa Recalcati, del resto, perché il desiderio di conoscere i propri genitori biologici ci appare così profondamente umano?
La distinzione fra genitorialità biologica e genitorialità sociale ha un senso quando la seconda rappresenta un necessario completamento della prima, oppure quando supplisce alla sua inevitabile mancanza. La normativa italiana sull’adozione e sull’affidamento, che pure dovrebbe valorizzare il legame sociale fra genitori e figli, ribadisce il primato “morale” della filiazione biologica, presentandone la mancanza come una situazione di per sé indesiderabile, a cui la genitorialità sociale pone rimedio.
È solo di fronte a casi di inadempienza grave, per esempio, che sentiamo il bisogno di precisare che il “vero” genitore è chi si prende cura del minore e non chi lo ha generato biologicamente. Non avrebbe senso, tuttavia, dire che un legame biologico viene tradito se in esso non vi fosse già iscritto un significato morale: il genitore biologico che abbandona il proprio figlio non fa ciò che, in nome del legame “biologico”, dovrebbe “moralmente” fare.
Se le cose stanno così, allora bisogna forse cominciare a contestare quello che sembra divenuto ormai un vero e proprio dogma nel dibattito odierno sul destino della famiglia, ossia che a essere importante non è il dato biologico in sé, ma il significato simbolico che si attribuisce ad esso. In realtà il rapporto di filiazione non è mai puramente biologico. C’è qualcosa, nel legame biologico di filiazione, in cui ne va di ciò che siamo come persone, e non soltanto come esseri viventi. Chi, con apprensione, viene a sapere di avere un padre biologico che non conosce, non ha mai la sensazione di enfatizzare impropriamente qualcosa che, in se stesso, sarebbe “solo” biologico. Il legame biologico, una volta riconosciuto come tale, è già una faccenda personale. Lo si potrebbe dire anche così: se è “umanamente” naturale voler conoscere il proprio padre “biologico”, allora il proprio padre biologico non è mai “soltanto” biologico, e nell’umiltà della natura si nasconde quella stessa ricchezza umana che Recalcati pensa invece di poter separare, astrattamente, dalle sue più profonde radici.
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica