Avvenire – Rosarno. La triste storia di Eric: anche da morto lo ha accolto soltanto la Chiesa
Alessandra Bialetti segnala al blog questo articolo, introducendolo così
Non ci dovrebbe stupire che la Chiesa accolga Eric nel suo ultimo viaggio perché Gesù non ci ha insegnato altro che la via di farsi compagni di qualsiasi dolore, disillusione, fallimento come quel giorno ad Emmaus quando lo sconforto era grande. Dobbiamo invece pensare a quanto da credenti dobbiamo diventare lievito per un mondo povero, solo e chiuso all’altro. Lievito anche se piccoli come granelli di senapa.
Eric, 32 anni del Ghana, è morto come un italiano, come un calabrese della Piana di Gioia Tauro. È morto di leucemia, il terribile male che sta colpendo tanti giovani di questo territorio, molto probabilmente uccisi degli affari avvelenati della ’ndrangheta sui rifiuti. Ma non ha una tomba dove essere sepolto. Nessuno se ne vuole occupare. Solo la parrocchia. Eric, permesso di soggiorno umanitario, viveva da dodici anni a Rosarno, da sette nella baraccopoli di San Ferdinando, a poche centinaia di metri dall’enorme inceneritore di Gioia Tauro, altro affare dei clan come accertato dall’operazione Metaurus dell’ottobre 2017.
Impianto che non si sa bene cosa emetta. Infatti non esiste una rete di centraline che misuri la qualità dell’aria. E così ci si ammala e si muore. Molto di più che in altre aree. Italiani e immigrati. Come Eric. Eppure una delle soluzioni proposte per eliminare la baraccopoli è di realizzare un campo di container su un’area proprio accanto all’inceneritore, all’altissima ciminiera ingentilita con disegni bianchi e azzurri ma che vomita i veleni che ha respirato Eric.
Solo quattro mesi fa, quando gli era stata diagnosticata la malattia, era riuscito a trovare una casetta, poco più di una catapecchia, non lontano dalla baraccopoli. «Abbiamo cercato una casa in affitto per lui ma nessuno ce l’ha data», denuncia don Roberto Meduri, parroco di S. Antonio in contrada ‘Il bosco’ di Rosarno, da tanti anni al fianco dei migranti. Eric, anche se avventista, frequentava la parrocchia. «Veniva spesso – dice ancora don Roberto – e altre volte lui e i suoi amici mi hanno invitato a pregare con loro nella baracca che utilizzavano come luogo di culto».
Lavorava Eric, bracciante nei campi della Piana, a raccogliere agrumi e kiwi. Piccoli contratti, ma importanti per lui, che inviava i soldi alla giovane moglie rimasta in Ghana. Ha lavorato tanto, fino a quattro mesi fa quando sono comparsi i primi sintomi della malattia che in poco tempo si è portato via questo ragazzone allegro e volenteroso. L’ennesima conferma che gli immigrati non portano malattie, piuttosto si ammalano in Italia per le condizioni di degrado in cui sono costretti a vivere. Malattie di chi vive l’emarginazione. Come Eric e gli altri braccianti della baraccopoli. La leucemia non gli ha dato scampo. Fino al ricovero a ematologia dell’ospedale di Reggio Calabria. Lì è morto due giorni fa, senza nessuno accanto.
Ora il suo corpo attende una degna sepoltura. E tanti hanno aperto il loro cuore. Non le istituzioni. Un negoziante ha regalato un abito, la ditta di onoranze funebri ha fatto un forte sconto per bara e trasporto. Ma ancora non si sa quando potrà essere sepolto. Quanti no per Eric anche dopo la morte.
Proprio nel cimitero di Rosarno sono sepolti altri cinque immigrati che vivevano nella baraccopoli, morti per gravi malattie, investiti da auto (non si è mai accertato se accidentalmente), uccisi dal freddo e dagli stenti. Ma per Eric tante porte si sono chiuse o si è scaricato l’onere su altri. Così Eric bracciante immigrato, lavoratore nei campi calabresi, morto per i veleni italiani, non trova un cimitero dove riposare in pace. L’ultimo e amaro capitolo della sua breve vita da sfruttato, emarginato, scartato. «Se ci autorizzeranno lo seppelliremo nella cappella della parrocchia, dove già ci sono altri immigrati», dice don Roberto. Ancora una volta è solo la Chiesa ad aprire le sue porte.