Se “mi” racconto mi conosci – Nella casa confiscata a un boss aiuto gli ultimi a riscattarsi

Qui, in via della Giustiniana, l’inverno è caldo, ma gli anticipi delle primavere romane non c’entrano nulla. C’è tanta luce, indora ogni cosa e si chiama Cristo. «È Lui che ci guida nel cammino perché è la certezza della redenzione. Qui, dove un tempo viveva il boss della banda della Magliana Salvatore Nicitra, oggi c’è gente che si era persa per strada ritrovandosi emarginata. Sono padri separati, ex tossicodipendenti, poveri, pluripregiudicati. La Luce li renderà liberi, gli dico. Fanno Cristo-terapia, solo così trovano la forza per pensare al futuro».
Don Antonio Coluccia ha una fiducia sfacciata e ti sfida con la concretezza della fede: 40 anni, origini salentine, viceparroco a San Filippo apostolo sulla via Cassia, ha realizzato il sogno di fondare l’Opera don Giustino (www.operadongiustino.it) aprendo una casa di accoglienza in una villa confiscata alla mafia. Il prezzo da pagare è una vita sotto protezione delle Forze dell’ordine. La sua potrebbe diventare una sceneggiatura per la televisione: se fosse scritta, ruberebbe audience a Don Matteo. In realtà, di scritto qualcosa c’è stato, ma in Cielo.
«Avevo una fidanzata, un contratto a tempo indeterminato in un calzaturificio di Trecase e un ruolo nel sindacato interno», racconta. «Nel tempo libero coltivavo la passione per la mia moto e il volontariato. A un certo punto ho aperto un’associazione per portare aiuti in Bosnia e Albania. Sono partito con viveri per quella gente e sono tornato con tanto altro. Ho conosciuto un missionario e credo che tutti noi abbiamo bisogno di un incontro vero, perché io lì ho scoperto la chiamata dentro di me. Avevo 21 anni, i miei genitori non avrebbero voluto, ma ho lasciato tutto».
Don Antonio torna in Italia per costruire una Chiesa povera e semplice. Inizia ad accogliere giovani che trova per strada, a farsi amare dalla gente del quartiere che, in vista di un trasferimento in Sicilia, alza la voce e riesce a trattenerlo. Lui non parte e fa di più: nel 2012 chiede al Comune la villa sulla Giustiniana confiscata al boss per ospitare chi vive ai margini. Quando riceve il bene in uso a tempo indeterminato è il 2 agosto, «giorno della memoria liturgica del beato Giustino Russolillo, il fondatore del mio istituto religioso, i Vocazionisti». Una bella conferma, ma anche l’inizio di tante minacce: lo scorso giugno un colpo di pistola a piombini destinato a lui lo sfiora all’uscita dalla chiesa. Viene colpita un’altra persona, per fortuna senza conseguenze serie. Poi gli viene recapitata una busta con la scritta «Parli troppo» e un proiettile. Riceve visite sospette alle 20.30 “per conto” dell’anagrafe. Finché il prefetto decide una misura di protezione della sua persona. Una pattuglia di vigilanza oggi presidia la parrocchia, lo segue negli spostamenti e durante gli incontri pubblici. «La mia colpa? Cerco di annunciare il Vangelo della non-comodità. Il prete è come un allenatore: deve tirar fuori il meglio dalle persone, e stare un passo avanti per indicare la strada. Questo è il modo per testimoniare il Vangelo. E per questo la notte vado in giro con un volontario su un pulmino in cerca di ragazzi soli, senza fissa dimora. La nostra unità si chiama “Per non dimenticare”, perché non si può essere indifferenti al bene dell’altro, e perché vogliamo ricordarci — come suggerisce questo Giubileo — che il nostro è un Padre misericordioso, che capisce e accoglie le nostre debolezze».
Quando trova uomini in difficoltà, don Antonio li porta a casa, questi trecento metri quadrati su tre livelli dove gli ospiti vivono in otto stanze dotate di bagno, hanno a disposizione la cucina e un giardino di tre ettari. C’è anche una fattoria con mucca, capre e asini. Vivono con don Antonio come in famiglia: 24 uomini, età media 20 anni, quasi tutti italiani. Si svegliano alle 7.30 per leggere il Vangelo del giorno, sistemano la casa, escono per cercare lavoro, partecipano a incontri formativi con un’équipe, per poi ritrovarsi tutti alla sera alle 19.30 a recitare il Rosario. «Il primo dovere che hanno è quello della condivisione», racconta don Antonio. «Restano in questa casa per un periodo che può variare dai quattro mesi ai due anni. La carità deve essere un progetto e io li aiuto a ri-progettare la loro vita e diventare autonomi. I principi che guidano la vita in comune sono accoglienza, fiducia e responsabilità».
Nella sua opera don Antonio non è solo: è aiutato da volontari, psicologi, assistenti sociali, educatori. «Il motto della congregazione cui appartengo è diventato il nostro programma», spiega. Lo recita: «Credo e vedo in ogni anima un santo. Anche sotto la scorza del male, stimo e venero il possibile santo futuro. Amo e adoro Voi, o Signore Dio mio, o Signore mio Gesù Cristo, in ogni mio fratello». A sostenere questa impresa sono la provvidenza, alcuni progetti di autofinanziamento e i sogni. «Vorrei aprire una comunità per donne in un altro bene confiscato alla mafia e, se Dio lo vorrà, altre case per i ragazzi, smarriti e strumentalizzati. La loro vita è importante, ecco cosa non vedono, ed ecco perché serve la Luce».

Tratto da Credere