Le Lettere di Valeria Castiglione – La lettera di una mamma alla mamma di Mahmood
Cara mamma,
non ci conosciamo, ma sento il dovere di scriverti perché il tuo dolore è il mio. In questi giorni tanti commenti che ho sentito mi hanno trafitto come spade il cuore. Abbiamo tante cose in comune, entrambe isolane e con un amore che qualcuno definirebbe “esotico”. Ho un bambino di 5 mesi, che ho tenuto in grembo per 9… quasi 10 mesi, si è sviluppato in me, è nato da me e vive per me. È mio figlio, proprio come il tuo Alessandro. Mio marito è indiano, anzi sikh per la precisione. Come capirai immedesimarmi in te era fin troppo semplice.
David, mio figlio, è già un piccolo dittatore, che sembra amare la musica. Spesso gli canto “sciccareddu di lu me cori”, lui impazzisce e ride a non finire. Ha il mio sangue e come me sente nelle viscere la mia amata lingua madre. Per onestà devo dire che ha la stessa reazione con la filastrocca in punjabi del papà!
Mio figlio è siciliano, è sikh, è nato a Roma e per la legge italiano, come il tuo giovane Alessandro.
Ho sentito commenti strazianti, che purtroppo sarebbe riduttivo definire frutto di pochi frustrati ignoranti. La verità è che i nostri figli saranno sempre considerati degli stranieri in patria. E questo l’ho capito solo adesso, grazie a questa vostra brutta esperienza. Ho sempre vissuto in un contesto protetto, circondata da gente che mi voleva bene o che viveva la diversità come un valore. Ho avuto il primo trauma trasferendomi a Roma, la grande metropoli mi ha serbato un razzismo che non potevo immaginare, Tanti, troppi episodi su autobus e tram che mi avevano fatto intravedere le porte dell’autocommiserazione.
Il primo episodio dalla nascita di David, sul tram. Sale mio marito con la carrozzina con dentro un bimbo di appena 10 giorni, io ero di poco avanti, una vecchia ad alta voce esclama: “ormai sui mezzi salgono cani e porci”. Io rispondo “i porci sarebbero mio marito e mio figlio?”, ma un’altra passeggera mi placa e mi dice “tranquilla, ti difendiamo noi”. Scendiamo alla fermata successiva, amareggiati, ma con la forza di quell’insurrezione generale che quelle parole avevano provocato. Da qualche tempo “si sono aperte le gabbie”. Troppa gente parla, scrive, posta, pensa in modo razzista come se fosse normale, addirittura “di buon senso”. La cosa che mi ferisce di più è quando queste persone sono donne e madri. Forse non hanno mai pensato che Alessandro potrebbe essere figlio loro.
Ho sempre messo la speranza davanti, la tenacia di chi era sempre disposto a prendere le mie difese. Non perché non sapessi difendermi da me, ma perché mi dava l’illusione di un mondo che lotta per restare giusto.
Per lo stesso motivo ti scrivo. Non ti conosco, ma so già che sei una donna forte; la mia unica intenzione è farti sapere che siamo in tante e dobbiamo sostenerci tra di noi. Ogni parola, ogni insinuazione su Mahmood come artista e ragazzo mi devasta. Vorrei potere gridare a gran voce, lasciate stare il mio bambino. Un bambino che è mio, che la cultura araba ha solo arricchito. Un figlio cresciuto a Milano, ma con sangue sardo. Milano ha ospitato, spero bene, una famiglia e un talento, ma il sangue isolano che non si dimentica e non ti lascia anche dopo generazioni. Non voglio lasciare a mio figlio questo mondo, mi chiedo spesso “Dov’è quel mondo in cui sono cresciuta? Perché a mio figlio è toccato questo schifo?”. Vorrei fare qualcosa per restituirgli il sogno degli anni 80 e 90, quando ero bambina io, di “we are the world”, delle pubblicità di Oliviero Toscani, della caduta del muro di Berlino, della prima Miss Itali nera! Vorrei ricostruirgli un mondo che vada verso la pace, la comunione dei popoli e la bontà, senza che questa venga etichettata come qualcosa di negativo.
Mio figlio non può e non deve essere straniero in casa sua. Mio figlio rappresenta l’evoluzione delle culture e il tassello di pace che ci salverà.
Ti lascio con questa frase, io non sono un gran scrittrice e ho scritto di getto così come mi suggeriva l’enfasi del momento, magari tu sarai molto più razionale e abituata di me a questi episodi e magari io ho ancora qualche ormone in subbuglio…ma ci terrei lo stesso tanto a contribuire a far nascere un barlume di speranza nelle mamme come te e me, figlie di un’altra Italia.
Sono una ragazza siciliana di 33 anni, da 10 sto con Gurcharn (34). Ci siamo conosciuti durante gli anni universitari a Catania. Io insegnavo italiano agli stranieri per un’associazione e lui era venuto a darci una mano con le traduzioni.Siamo subito diventati amici e da lì a qualche mese ci siamo messi assieme. Due anni fa abbiamo deciso di sposarci. Abbiamo onorato entrambi i riti religiosi, cattolico e sikh e abbiamo deciso di improntare la nostra famiglia su questo doppio binario.Non ci basta dire “da grande sceglierà da solo la religione che preferirà”, vogliamo che cresca con un’impronta religiosa, perché la religione, specialmente le nostre, protendono entrambe per l’uguaglianza e la pace tra i popoli. Non vogliamo un figlio senza Dio, ma un uomo consapevole della grandezza e della bellezza dell’universo e “credente” in una forza buona e giusta che lo governa.Tornando a me, dopo un po’ di vita girovaga, tre anni fa sono approdata a Roma e dopo circa un annetto Gurcharn mi ha seguito.Gurcharn è un cuoco, appassionato soprattutto della cucina siciliana. Ama il suo lavoro e lo vive come un’arte, anche se adesso con la nascita di David è diventato sempre più faticoso.Cinque mesi fa è nato nostro figlio David e da qui si sta aprendo un nuovo capitolo della nostra vita…