FarodiRoma – Summit sulla protezione dei minori. Non c’è un consenso unanime, dal dibattito emergono alcune criticità
Federico segnala al blog questo articolo redazionale di FaroDiRoma che farà molto discutere
Il summit sulla protezione dei minori voluto da Papa Francesco ha raggiunto ieri uno dei suoi momenti più caldi grazie alla testimonianza resa a Tv2000 da don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità Capodarco, che ha raccontato di essere stato abusato 50 anni fa in seminario e di essersi salvato dai sensi di colpa «con questo pensiero: i vigliacchi erano loro non io. Non mi sono mai sentito vittima perché le persone malevoli, subdole e delittuose erano loro, gli adulti, i presunti o veri educatori».
Chi ama la Sposa di Cristo, laico o sacerdote che sia, non può che essere felice della straordinaria svolta chiesta da Bergoglio sul tema della «protezione dei minori nella Chiesa» ma allo stesso tempo non sarebbe onesto nascondere quale siano le criticità di questa operazione. Chi si è comportato per secoli in maniera diversa da come sta chiedendo Papa Francesco ora – sulla scia di quanto già iniziato da Papa Benedetto – aveva delle motivazioni e non tutte queste erano negative e con radici peccaminose. Alcune di esse erano e sono preoccupazioni fondate, che ora divengono passaggi delicatissimi. Per questo è necessario dar loro lo spazio anche solo di un racconto sommario e in forma interrogativa.
Cominciamo dalla “dimissione dallo stato clericale” di McCarrick, volgarmente passato alla storia come il primo cardinale “spretato”. È vero che le accuse erano sconvolgenti e pesantissime ma perché tale decisione è stata presa in via amministrativa, cioè senza un vero e proprio processo, ma solo con il contradditorio degli avvocati di McCarrick? Viene da pensare che la risposta sia “politica”. Cioè che a Francesco fosse necessario arrivare all’attuale summit “con i compiti fatti” ed essendosi lavato per bene le mani dalle accuse mossegli da Viganò. Certamente alla Chiesa adesso è più utile un cardinale spretato che un prete penitente: bene, ma dimostrare che nemmeno i vescovi sono al di sopra della legge è una motivazione giusta per condannare? È una decisione evangelica? Salva la persona? O, ancora una volta, anche se in modo diverso dal solito, salva l’istituzione invece del singolo? Le procedure processuali sono complicate perché è più grave se si fanno delle ingiustizie attraverso un processo, che lasciando delle ingiustizie impunite: questa affermazione infastidisce chi ha sete di vendetta ma fa onore a chi sa quanto fatica è necessaria per costruire una civiltà.
Un’altra considerazione delicatissima riguarda la quantità e la qualità degli abusi. Un bambino che subisce un abuso non denuncia mai. Per lui il mondo dell’adulto è il mondo della sicurezza e della verità. Non pensa che quello che gli stanno facendo è male perché per il bambino quello che riceve dall’adulto è sempre bene. Il dolore che si procura al bambino è proprio quello di non saper distinguere più tra l’amore e il male. Il pandemonio nel quale si trova invischiato è proprio la convinzione di pensare che l’amore è quel male che ha ricevuto. Per capire questa cosa e per guarire da essa (quando ci si riesce) ci vogliono anni, decenni. E così avviene che normalmente si indaghi su fatti avvenuti decenni prima. Per esempio l’inchiesta condotta dal Grand Jury della Pennsylvania riguarda un periodo di tempo di circa settant’anni, decorrente dagli anni ’40 del secolo scorso. Delle altre inchieste che hanno destato maggiore scalpore, e cioè quelle condotte da organismi governativi in Australia e in Irlanda, la prima, stando alla relazione della Commissione Reale appositamente istituita, risaliva fino agli anni ’50 del secolo scorso e la seconda, i cui risultati sono stati resi noti con i rapporti Ryan e Murphy del 2009, risaliva addirittura all’anno 1936. È di tutta evidenza, quindi, che buona parte degli episodi di abuso risultanti da tali inchieste non hanno potuto trovare, a causa del tempo trascorso, sicuri e definitivi riscontri probatori, essendo venuti a mancare, in molti casi, tanto i protagonisti quanto i possibili testimoni. Il che però non ha impedito alla maggior parte degli organi di informazione di fare di ogni erba un fascio, gettando in pasto all’opinione pubblica, con titoli ad effetto, il numero complessivo degli abusi, senza distinguere tra quelli oggettivamente accertati e quelli che, tutt’al più, in assenza di prove, potevano considerarsi soltanto dotati di generica credibilità; ipotesi, quest’ultima, che, in base ad un elementare principio di civiltà giuridica, non può in nessun modo essere equiparabile alla prima, ai fini della formulazione di un giudizio di colpevolezza, nei confronti tanto di un individuo quanto di una istituzione.
Parliamo poi dell’accusa di “insabbiamento” e di “copertura” di cui spesso vanno oggetto le autorità ecclesiastiche. Un caso su tutti quello dell’Australia, dove una legge imporrebbe ai sacerdoti di violare il violare il sigillo sacramentale qualora dovessero ricevere notizie relative ad ammissioni di colpe in tema di pedofilia. Ma un sacerdote che compisse tale violazione incorrerebbe nella scomunica ecclesiastica e, comunque, non potrebbe mai obbedire a quella legge alla luce del fondamentale principio dell’etica cristiana secondo cui, quando vi sia contrasto tra la legge umana e quella divina, quest’ultima è la sola che dev’essere osservata (cfr At. 5,29). Oltretutto, a queste condizioni, quale fedele che avesse commesso tali colpe si avvicinerebbe più a un confessionale?
Come si vede le questioni sono enormi e fanno comprendere come certi comportamenti ecclesiastici siano dovuti sì, a volte, a pavidità e a miseria ma a volte anche a saggezza.
Dovrei ora affrontarne decine d’altre criticità ma concludo con quella forse più delicata di tutti. Quella, ancora una volta, che riguarda il dolore del bambino, della vittima. Prima che il bambino capisca che quanto ha subito è male occorrono anni, ma nel frattempo i genitori sono immersi in un mare di rabbia. Fa bene questa rabbia al dolore? Il dolore va sempre in qualche modo custodito, ha bisogno di una zona franca in cui tutti devono avere rispetto: è giusto imporre a un genitore, a un altro prete, a un vescovo che intervenga come confidente e che vorrebbe aiutare, l’obbligo di denuncia? È giusto esporre al grosso pubblico del sistema mediatico tutto ciò? Un conto è spingere a coprire, a non parlare, a insabbiare, altro conto è obbligare a denunciare.
E se volessimo un capro espiatorio responsabile delle nostre ferite? E se la rabbia che parla non è quella del bambino ma quella dell’adulto? E se tutto ciò fosse una manovra per distogliere l’attenzione dai luoghi dove davvero avvengono in grande quantità gli atti di pedofilia, luoghi che non sono principalmente le Chiese ma le famiglie, le scuole, le palestre?
Tratto da FarodiRoma