Alessandra Bialetti / Blog | 21 Gennaio 2019

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Vino buono

Domenica mattina. Si apre il portone di Rebibbia, anzi le tante porte che ti dividono dalla realtà e ti immettono in un mondo parallelo. Le nozze di Cana è il vangelo di oggi. Possibile pensare a Cana mentre percorri i corridoi incolori, grigi e apparentemente senza vita di un carcere? Cana è simbolo di festa, di invitati, di allegria, di promesse che si credono eterne. Il carcere? Eppure se il vangelo di Gesù entra e risuona in quella cappellina disadorna e arrangiata un motivo ci dovrà essere, ci deve essere una festa anche lì, degli invitati anche lì, delle promesse anche lì. Mi colpisce che Gesù si manifesti per la prima volta con un miracolo all’interno di una festa matrimoniale. Mi piace pensare che Gesù lo abbia fatto non solo per sottolineare l’importanza del matrimonio ma per indicarci il valore delle relazioni e il tesoro dei legami. Gesù interviene a portare vino buono là dove c’è relazione, dove le persone si mettono in gioco magari gettando gli ultimi due spiccioli che possiedono, dove ci si siede intorno ad un altare disadorno, tra panche rimediate e grida provenienti dai corridoi, là dove la nostra morale non lo vorrebbe mai vedere. Perché si sa: il carcere è e deve essere un “non luogo” o meglio quel luogo dove stipi le persone fino all’inverosimile (rendendole ancora più aggressive) e getti via la chiave. Invece per Gesù non esiste un “non luogo”: se oggi si è scomodato per portare la sua parola a Rebibbia è perché sapeva bene di incontrare semplicemente delle persone, delle storie, degli sguardi, delle disperazioni, delle speranze. E mai trova le panche vuote perché quella festa domenicale non è solo la scusa per uscire dalla cella per un’ora e chiacchierare con il compagno di detenzione ma è anche un banchetto in cui si cerca di trasformare l’acqua in vino. Come? Facendo non solo la comunione ma comunione, costruendo relazioni nuove anche se si è sbagliato fino ad un attimo prima, condividendo dubbi, rabbia, disperazione, speranza. Lasciandosi interpellare dalla Parola scoprendo di avere tanto da dire quando in realtà avevano pensato, fino ad un attimo prima, di essere poveri di tutto e indegni di commentare il Vangelo. L’acqua è fondamentale per vivere, lo sappiamo. Ma anche la gioia, l’aprire il cuore ad un futuro diverso, il pagare per ricominciare a vivere, lo scambiarsi il segno della pace con l’impegno di viverlo dopo in cella e magari portarlo a chi non è sceso in cappella, anche questo è fondamentale. Il mettere insieme le preghiere dei fedeli ricordando i morti in mare, i bambini vittime di violenza, i malati, le famiglie che attendono a casa, i detenuti che non ce l’hanno fatta, lo spingere la sedia a rotelle del compagno che non potrebbe essere invitato alla festa: questo è vino. Il vino ha più sapore dell’acqua, è corposo, è gustoso, diventa luogo di condivisione intorno ad una tavola e, per un attimo, senza esagerare, fa sentire più leggeri. Gesù in carcere porta la buona notizia che anche l’acqua più slavata, più inquinata, più contaminata, ha la possibilità di diventare vino buono, vino da mensa, vino di condivisione. Ed è un Gesù che non disdegna di riservare il vino buono anche a chi di cose buone ne ha fatte ben poche o continua a non farle anche nei corridoi del carcere, non porta un vino scadente, una sottomarca, una bottiglia avanzata da anni e ormai priva di gusto e forse diventata aceto. A tutti porta il vino migliore, quello pregiato, quello costoso, quello che normalmente si riserva per gli ospiti d’onore. Ecco oggi il vino migliore io l’ho gustato in carcere davanti allo sconcerto di chi si meravigliava di poter solo pensare di essere un vino buono, di chi disperava di essere invitato alla festa perché aveva troppo sbagliato, di chi si giudicava e si giudica perso e destinato ad invecchiare in cantine umide e soffocanti. Questa si che è stata una festa di Cana, non c’erano vestiti buoni, sfarzo, suoni e canti se non il mio povero strimpellare su una chitarra che, anch’essa, ha bisogno di un permesso per entrare. Una festa in cui la parola d’ordine per entrare è stata “sentiti amabile” ovvero prova a considerarti degno di quell’amore che bussa anche in carcere e che non guarda se hai le carte in regola ma si spende anche a rischio di essere rifiutato. Vino buono è sentirsi amati ancor prima di amabili perché non ti è richiesto di essere un invitato inappuntabile per riempire il bicchiere e fare festa ma solamente di sentirti anche tu chiamato alla mensa, chiamato a scommettere sul possibile cambiamento della tua acqua slavata e senza gusto in un vino pregiato e buono per festeggiare. Per festeggiare relazioni nuove, piene di sapore, senza giudizio e pregiudizio, relazioni da buona notizia. E magari arrivare ad ubriacarsi di legami di qualità, di stupore e di accoglienza.

E a quella domanda del detenuto che chiedeva “posso essere proprio io un vino buono?” poter rispondere che nessuno ha il passaporto della perfezione o una patente abilitante ma forse solo un vestito logoro che riconosce nelle mani del Sarto il suo Artista.

Allora sono felice: a quella festa a Cana c’è posto anche per me.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.