Blog / Scritti segnalati dal blog | 18 Gennaio 2019

Invece Concita – Cosa vedo ogni giorno in ospedale

Alessandra Bialetti segnala al blog questo articolo

Questa lettera è di Antonietta Melchiorre, medico ospedaliero

“Ricordando la famosa poesia di Totò ‘A livella, penso che forse la morte non farà discriminazioni, non guarderà il colore della pelle né il conto in banca, ma la malattia sì, la malattia discrimina: rende per qualcuno più dolorosa la sofferenza, più acuto il dolore, più insopportabile l’indebolimento fisico anche se è abituato a vivere in salita, a percorrere una scala non ‘di cristallo, ma disseminata di vetri’, come dice il poeta Langston Hughes”.

“Nella mia lunga professione di medico ospedaliero ho visto negli ultimi anni moltiplicarsi il numero degli immigrati che sempre più ricorrono alla nostra struttura, a volte solo per una visita ambulatoriale, a volte per qualcosa di più serio che richiede il ricovero. Ho visto gente guardarti con occhi confusi e disorientati, incapace di comprendere la natura della malattia che li affligge, perché spesso hanno imparato solo alcune parole essenziali per la sopravvivenza”.

“Ho visto persone che hanno rifiutato di farsi curare per la paura di perdere un posto di lavoro faticosamente conquistato. Ho visto giovani, uomini e donne, accompagnati dai loro datori di lavoro, in quanto assolutamente incapaci di comprendere e farsi comprendere, con manifestazioni cutanee diffuse in tutto il corpo, conseguenti ad attività lavorative massacranti (uccisione di 1500 tacchini in un solo giorno, lavori in porcilaia per 18 ore consecutive…), immagini che riportano alla memoria gli schiavi d’America”.

“Ho visto un lavapiatti al quale in un anno intero non è stato concesso un permesso di due ore per potersi recare in ambulatorio e ha dovuto ricorrere alla supplica personale nei confronti di un medico di buona volontà che lo visitasse fuori orario. Ho visto donne e uomini che, degenti da giorni in condizioni di salute molto precarie, non hanno avuto mai il conforto di una persona amica, chi potesse garantire un cambio di biancheria”.

“Ma non si lamentano mai, non hanno mai da ridire sul menù, né sull’assistenza né sulle attese per le visite: ben più alta della nostra è la loro soglia della sopportazione. Oggi uno di loro mi diceva: ‘Non ho fretta di uscire, qui qualcuno che pensa a me. Non mi è mai successo’. Il mio intento non è certo quello di commuovere, ma solo di far riflettere, di far pensare a quanti privilegi abbiamo, a quanto, giustamente, i nostri parenti e amici si preoccupano di noi quando siamo malati, ai cioccolatini e fiori che riempiono le stanze di degenza dopo un piccolo intervento di appendicectomia, fatto che probabilmente aiuterà la ferita a cicatrizzare più in fretta”.

“Allora si può dire che esiste chi è ‘malato due volte’ e che, oltre alla cicatrice chirurgica, ne ha una ben più profonda che forse ognuno di noi può contribuire a rimarginare”.