Progetto Gionata – “La mia vita non è una litote”. La retorica del Magistero sulle relazioni omosessuali
Marco G. segnala al blog questo articolo, introducendolo così:
Quando la Tradizione arriva a calpestare le Persone e generare schiere di oppressi, ecco che giunge l’annuncio del Vangelo: così fu al tempo dei Farisei e così è ai giorni nostri; tutto passa in questo mondo, civiltà e tradizioni, solo la Parola di Dio che è Amore non passerà mai!
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Riflessioni di Antonio De Caro del Gruppo Cristiani Arcobaleno di Parma, prima parte
A distanza di qualche settimana, ho deciso di scrivere alcune riflessioni sull’incontro tenutosi a Caravaggio (BG) il 18/11/2018, che ha visto coinvolti diversi gruppi di credenti LGBT, genitori ed operatori pastorali. Si tratta di considerazioni personali, anche riguardo alle emozioni che hanno accompagnato le relazioni e i commenti su di esse.
Poter tenere l’incontro è stata, certo, una vittoria. Meno di un anno fa, l’arcidiocesi di Torino aveva dovuto sospendere un ritiro sul tema della fedeltà, organizzato per i credenti LGBT, a causa delle pressioni (spesso occulte) giunte dalle frange più intransigenti della Chiesa e della sua gerarchia. Adesso gli spiragli pastorali aperti anche dal recente Sinodo dei giovani hanno reso possibile resistere ai nuovi attacchi degli intransigenti e riunire le persone di buona volontà al tavolo del dialogo, dove è importante che nessuno si sieda pensando di detenere una verità assoluta da imporre agli altri. Dobbiamo, per questo, ringraziare il vescovo di Cremona e il rettore del Santuario, che hanno risposto con autorevole fermezza al fanatismo che assediava l’incontro; le forze dell’ordine hanno dovuto presidiare per tutta la giornata l’esterno del Santuario, dove entravamo stupiti per questa protezione che rivelava un clima minaccioso contro di noi.
È opportuno che pastori, genitori e credenti LGBT collaborino in un clima di apertura, tolleranza ed umiltà. Che vengano “sospesi i giudizi” di diffidenza e condanna reciproca. Che nessuno impugni la Scrittura o la Tradizione come un’arma per ferire gli altri. Che vengano evitare espressioni come “intrinsecamente cattivo” o “intrinsecamente disordinato”, per cercare una verità più vicina al pensiero amorevole di Dio rivelato in Gesù Cristo. E quindi, seguendo il suggerimento di Wittgenstein, di ciò di cui non siamo in grado di parlare, dovremmo tacere, lasciando prevalere l’ascolto, il rispetto, la meditazione, la preghiera.
Ecco perché mi sento ancora ferito quando sento che gli stessi pastori che stanno con noi “dentro le mura”, che ci difendono dagli assalti dei fanatici, usano espressioni di cui forse ignorano la portata. In apertura è stato detto che quando la Chiesa accoglie i credenti LGBT deve comunque tenere insieme “la verità e la carità”. Si tratta della stessa giustificazione con cui lo scorso 20 maggio mons. M. Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, ha imposto la sua presenza alla veglia di preghiera per le vittime dell’omofobia, affermando che in ogni caso la Chiesa deve continuare ad affermare la sua tradizione, e cioè che le relazioni omosessuali sono un’espressione del male.
Molti pastori, anche “illuminati”, premettono sempre, quando partecipano ad incontri di credenti LGBT, che non intendono mettere in discussione la dottrina ufficiale della Chiesa, che poggia sul Magistero. Intuisco che, quindi, il richiamo alla “verità” è in realtà un richiamo alla Tradizione, che non sempre coincide con il Vangelo. Fare questa dichiarazione preliminare -è la mia impressione- serve a porsi al riparo dalle accuse di eresia e disobbedienza, serve a non prendere posizione, a dichiarare (con quanta sincerità?) il proprio ossequio ad una “verità” gerarchica che assomiglia tanto alla Legge dei Farisei. Sì, noi ci prendiamo cura dei credenti LGBT, li accogliamo e li ascoltiamo, ma in fondo è per ammonirli e ricordare loro che la loro ricerca di amore è comunque fuori dal disegno di Dio. Il rischio, pertanto, è quello di una forma dolce e “paterna” per dirci sempre e comunque che siamo “un abominio”. Ma non si può dire di amare i figli e rimanere poi sordi al grido del loro cuore. Non si può dire: il mio compito è di tenere insieme la carità e la verità, se poi in apparenza “accogli” le persone, ma ne disapprovi le autentiche e sincere aspirazioni morali. Perché la verità -che pretendi di annunciare- non può essere diversa (né nella sostanza né nella forma) dalla carità con cui pretendi di accogliere. Dio non è ipocrita, e se accoglie con carità, offre una verità che è, per la sua stessa natura, fatta di carità.
Molti pastori accusano le persone e i movimenti LGBT di essere asserviti ad una ideologia. Ma in che cosa consiste davvero la manipolazione ideologica? Come ci ha insegnato -con costi drammatici- la storia del Novecento, ideologia significa creare una struttura di pensiero e di morale che viene imposta alle persone, private della loro libertà. L’ideologia non ascolta la storia degli individui, non si ferma a comprenderne empaticamente gli slanci, i valori, le sofferenze. Le persone, nella narrazione ideologica della realtà, sono chiamate a conformarsi in modo acritico e meccanico ad un modello che qualcun altro ha stabilito come unico modello accettabile. Ora, io sono un uomo cristiano ed omosessuale e dedico la mia vita, in modo serio e responsabile, alla ricerca di una dimensione morale per vivere le mie relazioni. Ma arriva il Magistero a dire che no, che non è possibile, che l’unica dimensione veramente morale per vivere l’affettività e la sessualità è quella eterosessuale, o altrimenti l’astinenza forzata. Dove sta davvero l’ideologia? Dove sta la mancanza di libertà? Dove sta il pensiero che non ascolta l’individuo ma gli impone di diventare solo un’espressione del sistema?
Così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica sulle relazioni omosessuali:
Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2357). Sintatticamente, questa cosa si chiama “paratassi asindetica”. È la sequenza di frasi principali, indipendenti l’una dall’altra, senza congiunzioni. Cercate di sentire con me il ritmo di questo discorso.
Sono intrinsecamente disordinati. Punto.
Sono contrari. Punto.
Precludono. Punto.
Non sono il frutto. Punto.
In nessun caso. Punto.
Come vi sembra questo ritmo? Dolce? Graduale? Melodioso? Morbido? Un ritmo ispirato a “rispetto, compassione e delicatezza”? Queste frasi, brevi, nette e spietate, io le ho sempre sentite come colpi di tamburo, lugubri rintocchi di campana. Una dopo l’altra, fredde, dure, metodiche, inesorabili. E, soprattutto, senza congiunzioni. Creano un discorso fatto di solitudini, fatto di parole e frasi che non si incontrano, non si intrecciano, non creano una storia, non raccontano l’amore di Dio. Ed è proprio il “catechismo”, cioè il testo chiamato a fare “riecheggiare” la lieta notizia della salvezza. Spero ci rendiamo tutti conto del male che possono fare queste parole, anche a chi si è ormai affrancato da esse. Un discorso senza congiunzioni, che avrebbe voluto che le nostre fossero vite senza relazioni. In che modo questo linguaggio teologico e pastorale può fare riecheggiare la letizia dell’amore, il lieto annuncio della salvezza?
Il teologo don P. Guenzi ci ha presentato, a Caravaggio, un excursus sulla dottrina cattolica sull’omosessualità a partire dall’enciclica Humanae vitae. Ha poi esaminato in modo testualmente scrupoloso e concettualmente profondo i passi pertinenti dei documenti del 1986, del 1992, del 2003, fino ad Amoris laetitia. E ci ha invitato a guardare con ottimismo la graduale scomparsa, da un documento all’altro, di alcune condanne drastiche: le aperture, a suo dire, ci sarebbero, ma lente, implicite, sottintese. Da ricercare con pazienza e attenzione. In attesa che la ricerca teologica fornisca al Magistero nuove risorse interpretative e che il Magistero le recepisca modificando la dottrina.
A mio modesto avviso, questa chiave di lettura non è adeguata né rassicurante, per almeno due ragioni:
1) I vescovi che ancora adesso negano spazi cattolici per l’aggregazione e la preghiera dei gruppi LGBT; i sacerdoti che dall’ambone condannano le relazioni omosessuali ed escludono le persone LGBT dagli incarichi in parrocchia; i genitori che, accecati da un Magistero disumano e insensibile, rifiutano l’orientamento omosessuale dei figli non possono cambiare opinione a forza di inferenze implicite e sottintese. Non sono disponibili ad una sottile e laboriosa esegesi del detto e del non detto nei documenti ufficiali. Essi li usano, anche in spregio del loro effettivo livello di autorità, per riaffermare la “tradizione”, e pazienza se qualcuno ci resterà male (questa sì che è ideologia).
2) Anche sorvolando su tale abuso di autorità, c’è da fare un’altra considerazione. La Chiesa, forse, sta lentamente imparando a non usare formule aggressive, a dire “forse il tuo orientamento, in base a certe circostanze, non è moralmente imputabile”. Anche questo uso retorico ha un nome, e si chiama “litote”. Usiamo la litote quando per esempio qualcuno ci chiede “come stai?” e noi rispondiamo “non male…”. La litote, per dire “bianco”, dice “non nero”, e in tal modo attenua un’affermazione percepita come eccessiva. Secondo l’interpretazione propostaci, i credenti LGBT dovrebbero rallegrarsi del fatto che i documenti vaticani dal 1975 ad oggi siano una catena di litoti, di dichiarazioni che usano una indefinita sequenza di negazioni pur di non ammettere, con coraggio e schiettezza “Ci siamo sbagliati”. Quindi l’obiettivo non è cercare ed affermare la verità, ma non smentire la tradizione (cioè l’ideologia) per non perdere il potere. Per non perdere credibilità fra le masse.
Il punto è che LA MIA VITA NON È UNA LITOTE. E voi non potete parlarne come se lo fosse.
La mia vita è ricerca faticosa ed appassionata del bene, non dell’assenza di male. La mia vita non è chiamata alla penombra, ma alla luce. Lo ha detto Gesù, venuto perché “abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10.10). Il criterio per valutare la moralità del comportamento omosessuale non è individuarne l’eziologia (cioè le cause). Se si accertasse che il comportamento omosessuale, in quanto dovuto non ad una scelta ma ad un orientamento innato e quindi immodificabile della persona, non può essere condannato, poiché non dipende dall’esercizio della libertà, si potrebbe arrivare a definirlo, al massimo, a-morale (un’altra litote), ma non è questo che noi cristiani LGBT cerchiamo nella Chiesa. Una possibile lettura dell’omosessualità, più che eziologica, dovrebbe essere (anche) teleologica, e cioè ricercare lo scopo dell’agire come accesso al senso morale. Una persona eterosessuale ed una persona omosessuale partono da una stessa configurazione di base: l’attrazione sessuale ed affettiva per persone di sesso diverso o uguale. Come vivono questa attrazione, e quale scopo intendono raggiungere? Dissolutezza, narcisismo, promiscuità, usare gli altri come strumenti di un piacere solo egoistico sono rischi da cui nemmeno le persone eterosessuali sono esenti. Ma se le persone eterosessuali e quelle omosessuali si propongono di vivere la sessualità come linguaggio dell’amore, della comunione sincera, della cura e del dono reciproco, della fedeltà; se fanno dell’intimità il segno di un’alleanza che accoglie l’Altro nella sua pienezza di umanità; se aspirano ad un progetto di vita che trova nella relazione la propria “casa”: non sono pienamente dentro la logica dell’amore e del Vangelo? Qualcuno obietterà: ma due partner dello stesso sesso non sono anatomicamente e fisiologicamente adatti a procreare. Vero. Per questo verrà sospinta nelle tenebre del “disordine intrinseco” anche l’intimità di un uomo e una donna che non possono o non possono più essere genitori? E soprattutto: Gesù Cristo guarderebbe all’anatomia e alla fisiologia dei corpi o al desiderio di bene che le anime sanno esprimere? Lui non ha forse fissato nell’intenzione del cuore (Mt 15,18-19) il criterio per valutare il bene e il male?