Agi – Cosa scrisse Silvia Romano un anno fa su Facebook
Dopo dodici giorni, di Silvia Romano sappiamo poco: solo che è viva da qualche parte nella foresta. Le notizie pubbliche sono esigue. Finora i ricercatori hanno trovato le moto con cui è stata rapita e le treccine che i sequestratori le hanno tagliato per farle indossare il niqab, evitando così che qualcuno la potesse riconoscere.
Mentre la polizia si fa largo tra alberi e reticenze delle popolazione, un prete come me deve fare i conti con il cinismo di chi dice “ma chi gliel’ha fatto fare” o, peggio, “se l’è andata a cercare, sapeva benissimo cosa le poteva accadere”.
Conosciamo tutti le polemiche in cui i gabbiani da tastiera hanno trascinato Massimo Gramellini per una diffusione parziale del suo “Caffé” del 22 novembre scorso, quello scritto all’indomani del rapimento. Eppure basterebbe fare un giro sul profilo Facebook di Silvia per trovare cosa sta all’origine delle sue scelte. “Amo piangere commuovendomi per emozioni forti, sia belle sia brutte – scriveva il 24 maggio, giorno della sua laurea – ma soprattutto amo reagire alle avversità. Amo stringere i denti ed essere una testa più dura della durezza della vita. Amo con profonda gratitudine l’aver avuto l’opportunità di vivere.”
L’espressione “gabbiani da tastiera”, che sostituisce la consueta perifrasi “leoni da tastiera”, è felicissima anche se temo possa essere compresa a fondo solo da chi, come me, vive a Roma e si scontra ogni giorno con gabbiani che invece di volteggiare alti sul mare come Jonathan Livingstone, si rubano il cibo beccando tra i cassonetti. Loro, che all’origine volavano sul mare, si tuffavano nelle onde, ora trovano più comodo frugare nell’immondizia. Roma è piena delle loro grida.
I poeti lo chiamano stridere, ma per me è solo un urlo: quello di chi ha accettato di farsi avvelenare. Livingstone, il famoso gabbiano celebrato da Richard Bach, era diverso dagli altri gabbiani perché mentre questi ultimi volavano per procurarsi il cibo senza pensare ad altro, lui invece adorava volare e si allenava ogni giorno alla ricerca del volo perfetto. I gabbiani romani di cui parlo, invece, sono almeno un gradino più sotto di quelli ovvi di Bach perché neppure volano sul mare cercando il pesce ma razzolano tra i rifiuti.
Ecco perché è azzeccata la metafora di Gramellini che trova eccessivamente lusinghiero definire “leoni” quelli che invidiano chi, come Silvia Romano, prova a vivere. Perché il punto non è andare o non andare in Africa a fare la volontaria ma prestare ascolto a quel metronomo interiore che ti dice se sei o no umano. Scendere a compromessi con la propria dignità è visibile anche solo da come si scrive un Whatsapp. Non c’è alcun condizionamento ambientale che possa costringere qualcuno di noi a cominciare con il minuscolo dopo il punto o ad accettare di non correggere il correttore che ci fa scrivere uno strafalcione. Lo diceva, con parole di Alda Merini, anche Silvia Romano in uno dei suoi post.
Proprio quello dell’8 dicembre scorso, in pratica esattamente un anno fa: “Anche se la finestra sul mare è la stessa, non tutti quelli che vi si affacciano vedono le stesse cose: la veduta dipende dallo sguardo.”
Tratto da Agi